recensioni dischi
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TS BLUESONE  "'Na spiranza"
   (2020 )

Viaggio. Partenza da Catania. Destinazione Chicago, St. Louis, Nashville, Memphis, New Orleans. Ritorno a Catania. E’ il cammino sulla retta via compiuto, in occasione del blues, grazie ad una guitar resonator. Il tipo di chitarra inventato intorno al 1925/1926 su richiesta dei musicisti delle grandi ensemble jazz, per ottenere maggiore sonorità rispetto alle normali chitarre acustiche dell’epoca. Ebbe poi successo grazie ai bluesmen del delta del Mississippi, che la suonarono col tipico bottleneck slide. E così fa ora Antonio Spina aka TSBluesone, nel suo album di esordio “Na spiranza”. E si accompagna con la fedele resonator, raccontando la sua Catania, coi suoi problemi, con le sue peculiarità. Tutto in occasione del blues. Perché in blues we trust. Pensa però poi di fare ricorso alla contaminazione elettronica, alla drum machine. E forse questa innovazione/sperimentazione risulta un po' troppo innovativa/sperimentale, troppo decontestualizzata rispetto al sanguigno blues del delta. Invece così tradizionale. Così blues da non avere spesso bisogno neanche del ritmo. Dunque nella prima metà dell’album, ad eccezione di “Solite ragioni”, il blues risulta un po' fuori fuoco. Quel blues da una parte e la drum machine da un’altra. E’ il caso di “Sempri no”, “C’ama fari” e “Canta ca passa”, che, tra l’altro, ha un ritornello col tema cantato a toni vocali rochi, molto alla Zucchero Sugar blues. Più misurata invece la seconda parte dell’album, a partire dalla precedente “Solite ragioni”, col suo inizio tipico e l’attacco musicale alla Joe Sarnataro & Blue Stuff; con la differenza che, in luogo del napoletano, qui si canta il catanese. Il blues è una musica che trova casa in tutti i Sud del mondo, quindi è giusto che valga allo stesso modo anche per quello italiano. Con “Segno” si approda alla parte più interessante dell’album. Con il suo andamento a locomotiva del delta e con la sua enfasi vocale, rafforzata in armonica blues harp a 10 fori ed arpeggio fisso in Do. Con “Uno come me” la partenza è già col piede giusto, a sostenere la ritmica ad un arpeggio deciso, a sua volta, a scandire “Figghiu scappa via da quà, ca post’ ccà nun c’è”. Circa il duro contrasto tra il lasciare ed il tornare nella propria terra di origine. “Non mi vogghiu” invece, con qualche incursione melodica alle spalle, nei ritagli di tempo e tra uno slide e un altro, cede il posto ad un inatteso ma contenuto tappeto sonoro da tastiera. Infine “’Na spiranza” col suo giusto tema iniziale, incisivo e cantato in maniera serrata, saluta tutti con uno smorzato “’na spiranza che non va più via”. Quasi a significare che se anche la speranza per ora va, in realtà non va. Ed è anche la speranza di avere sano blues, delta blues, senza filtri o innovazioni. Che sia di tutti i Sud del mondo. Che canti la sofferenza in dialetto catanese. Ma dev’essere così, crudo e tradizionale. Scarno, sofferente ed intenso. Il blues è così. Ed in blues we trust. (Vito Pagliarulo)