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VLAD IN TEARS  "Dead stories of forsaken lovers"
   (2020 )

Ah, il confortevole tepore della prevedibilità! Piccola, rinfrancante estasi che mette al riparo ogni certezza.

Dicono: l’innovazione, l’azzardo, l’estremo! Il mondo va avanti, la musica evolve - magari non più così tanto? - cercando nuove strade, soluzioni al passo coi tempi, altri ibridi, sviluppi futuri, eccetera.

Grazie al cielo esiste il confortevole tepore di band come i Vlad In Tears e di album come “Dead stories of forsaken lovers”: bastano il nome della band, il titolo del disco e la copertina del medesimo, ed è amore a prima vista. Roba da adorarlo a scatola chiusa, senza nemmeno premere play.

Poi premi play e benedici tutti i tuoi passati fantasmi quando parte la ballata à la Sisters Of Mercy di una devastante “We die together” (uh, i titoli!) con tanto di baritono sepolcrale e ritornellone contrito in minore sparato sulle ali di chitarroni pesi e drammatici, pomposi e sovraccarichi. Una piccola, rinfrancante estasi. Nemmeno il tempo di riprendersi e la cadenza zoppa di “Tonite” spinge dalle parti del Reverendo un altro pezzone che si fa strada fra sussurri, rigurgiti e deflagrazioni assortite.

I testi, uh! Storie di morte e di non-redenzione, Grand Guignol e spettri, come da copione. E una profusione di chorus senza sbagliare un colpo, un pandemonio di suoni belli tondi e ragionevoli che avrei voluto da Eldritch e soci un quarto di secolo fa. Un copione da manuale del gothic-rock, cosa mi può più interessare? E dunque avanti coi carri, dalla mitragliata di “Felt no pain” alla bordata di “Broken dreams” – prepotentemente in zona The 69 Eyes –, dai tre minuti inappuntabili di “Born again” fino al commiato desolato di “Tears won’t fall”.

Qua e là fa capolino qualche lentaccio catacombale, che sia quello cadenzato di “Every day it’s gonna rain” (uh, i titoli!), la ballatona incupita di “Heavy rain” - con una linea basso-batteria tipo i J&MC di “Darklands” - o quello ammorbidito del requiem “Sleep lover sleep” che sembra pescata dal cilindro di Matt Howden tanto è estatica, rapita, sfuggente, melodrammatica, ma che tra synth e archi precipita in un ritornello memorabile, giù dalle parti dell’Ade.

In cima alla lista – o in fondo al baratro, fate voi – sta il riff spaccaossa di “Dead” che devasta quattro minuti e diciannove secondi belli come Scarlett Johansson, ammiccanti perfino a qualcosa di limitrofo che descrivervi non saprei. In quei quattro minuti e diciannove secondi che continuo a mandare in repeat sembrano quasi gli All Time Low o i Fall Out Boy – neppure c’entrassero qualcosa - prima che il refrain inghiotta tutto.

La versione che ho per le mani è una deluxe con ben sette pezzi bonus in veste acustica, tra cui una buona cover di “Man in the box” degli Alice in Chains, lontana dall’originale per la pulizia del canto e per la piega melodiosa che assume, e sei episodi – tutti egualmente apprezzabili nella loro sofferta afflizione: cito almeno “Days gone” e “Still here” - tratti dai precedenti album della band.

Fanno in totale sessantaquattro minuti di antica beatitudine, prevedibili come un rigore assegnato alla Juve o come le proteste per un rigore assegnato alla Juve. Ma in fondo è ininfluente, pura gioia nera da assaporare come assenzio.

Vlad In Tears sono un quartetto nato a Cassino nel 2007 dalla mente dei fratelli Miconi. Da diversi anni sono di stanza a Berlino. Sono passati attraverso vari cambi di formazione, calcando palchi importanti e guadagnandosi meritata fama internazionale. Hanno un’idea e la portano avanti con fiducia incrollabile. Si sono dati nomi d’arte come i Ramones: sono Kris Vlad, Dario Vlad, Lex Vlad e Xander Vlad.

“Dead stories of forsaken lovers” – fuori a San Valentino per Echozone - è il loro ottavo lavoro in studio.

Li amo.

Tutto qui. (Manuel Maverna)