recensioni dischi
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PAOLO CONTE  "Una faccia in prestito"
   (1995 )

Non sempre la generosità viene apprezzata, come dimostra l’accoglienza abbastanza freddina data a suo tempo da alcuni critici a questo splendido “Una faccia in prestito” (1995). Ancora dopo 10 anni, per dirla con l’autore “non si capisce il motivo”: un Paolo Conte così straripante di inventiva non lo si ammirava dai tempi del doppio “Aguaplano”. Anche qui c’è il tentativo di fare le cose in grande: più di un’ora di musica, con poco o niente di zavorra. E’ vero che fatalmente in un’opera di così larghe dimensioni prima o poi si incappa in qualcosa di cui magari si poteva fare anche a meno. In questo caso si tratta di una serie di canzoni piuttosto alcooliche, deliri sudamericano-napoletani, concentrate soprattutto nella seconda metà del disco: cito “Danson metropoli”, “La zarzamora”, “Vita da sosia”. Ma è anche vero che, pur non essendo memorabili, rappresentano al meglio il lato goliardico dell’Avvocato di Asti, che riaffiora quasi intatto dopo essersi perso un po’ misteriosamente all’incirca dagli anni ’80, per fare qualche breve ricomparsa proprio in “Aguaplano”, forse il suo album più vario. Insomma anche questo è Paolo Conte, anche la spassosa “Quadrille”, duetto un po’ comico e un po’ medievaleggiante con il contrabbassista Jino Touche. Un po’ di leggerezza non guasta, specie se non si impone, ma al contrario convive con il lato più incantevole della sua musica, quello di certi gioiellini jazz che avrebbero ben figurato anche in quel capolavoro di nostalgia che è “900”: ascoltare per credere l’impasto morbido e burroso dei fiati, alla Coleman Hawkins, in “Un fachiro al cinema” o la tromba stile Louis Armstrong anni ’30 in “Don’t throw it into the W.C.”. Ma neanche Paolo Conte vive di solo jazz, e forse mai come in questo album si dimostra aperto ad altre suggestioni, con risultati eccellenti: immagini e ritmi d’Africa (dipinta sempre con “eleganza di zebra”) in “Elisir”, una delle sue canzoni più veloci, suoni ancora più vagamente orientali, ma con una buona dose di ironia, in “Sijmadicandhapajee” (cinese? giapponese? Macché, è autentico dialetto piemontese). Molto originale anche “Fritz”, stravolta marcetta brechtiana, cornice ideale per il ritratto di un personaggio altamente etilico, un clown completamente suonato. “Teatro” è probabilmente il brano più coinvolgente, con il suo ritmo di bolero sostenuto e con il suo testo pieno di fuggenti e struggenti immagini. Il sottotitolo è “Orazione d’onore per il Teatro Alfieri di Asti, chiuso da tempo”, e da solo riesce a far intravedere, al di là del “vino del sipario”, eroiche rappresentazioni di altri tempi, ormai dimenticate (“tanto qui nessuno si dispera”). Come al solito Paolo Conte si dimostra un maestro nel comporre lenti, più o meno jazzati, come “Epoca” e “Le tue parole per me”. Proprio tra i lenti si fanno notare due vere perle: una è quella che qualcuno chiamerebbe “title-track”, “Una faccia in prestito”, solo per pianoforte e voce, motivo ispirato e malinconico, che per certi versi anticipa lo stile prevalente nell’ultimo “Elegia”. La seconda, che chiude il disco, è “L’incantatrice”, otto minuti di musica da brivido, secondo il modello ormai collaudato di “Hemingway” e “Max”: inizio sommesso con strofe accompagnate dal pianoforte, finale strumentale pirotecnico, con una vera e propria gara di bravura dei fiati. I brividi che ci assalgono “da tutti i mille spifferi del nord” sono solo l’ultima sensazione che ci regala questo disco, in cui l’Avvocato appare ancora una volta in stato di grazia. I critici avranno anche il diritto di pretendere di più, ma per me basta e avanza. (Luca "Grasshopper" Lapini)