recensioni dischi
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MONS  "Non può piovere per sempre"
   (2020 )

Storie di ordinarie ragazzate o ragazzi dalle storie ordinarie. Acerba volontà e sana incoscienza, in cerca del proprio tempo. Tra situazioni, coincidenze, ragazze, scazzamenti, amori, 30 e lode, storie finite bene e male. Insomma, in una sola parola: pop. E’ il pop italianeggiante dei torinesi Mons, alla loro prima esperienza discografica. E’ il pop che si mantiene in equilibrio tra insicurezza e precarietà, tipica di questi tempi. E’ tuttavia una combinazione di idee il cui rapporto dà come risultato speranza, positività e sicurezza che, anche nei momenti peggiori, fa emergere una presunta serenità. Da tale concept nasce “Non può piovere per sempre”. E non è solo la frase epitaffio di Brandon Lee ne “Il Corvo”, ma è soprattutto la volontà di una generazione che si costringe a vedere un futuro per sé un po' più roseo, in un presente che perde sempre più colori e diventa caliginoso. Il pop è genuino. Innocente ed ingenuo. Insomma, italianeggiante. E’ fatto di chitarre suonate discretamente (che talvolta, timidamente, alzano il tono e sgranano in distortion), è fatto di una buona base ritmica di batteria, è fatto di un piacevole piano elettrico (o Fender) che spesso fa capolino, nei sei brani più d’atmosfera che compongono questo album/EP. Nonostante la tendenza schiettamente mainstream, si nota la presenza di composizioni di maggior rilievo come “Fiato corto”. Brano il cui contesto giocherella con ambientazioni appena soul e/o rhythm’n’blues. Con un interessante finale in guitar solo che, atteso il fatto di trovarsi al punto giusto, meritava forse più spazio ed una maggiore durata. “Scappa”, dal simpatico testo, esalta l’idea dello scappare quando tutto ormai sembra andare a rotoli. Ed ha anch’esso una bella chitarra distorta, con interessanti bridge nel pezzo; se non fosse solo per un cantato sconfinante nello scimmiottamento rap, che penalizza un po' il contesto. “L’ultima volta”, dal ritornello facilmente memorizzabile, è cantato col tono sarcastico-consapevole di avere la risposta in tasca, scandito da una presente chitarra funky; mentre ci si chiede se una certa volta deve essere veramente l'ultima. E poi le iniziali “Quattro quarti” e “Niente di che”, con le quali si constata che, per amore, si è disposti a cedere i quattro quarti di sé stessi, per poi, al contrario, accorgersi di quanto ciò che sembrava amore risulta invece ossessione. Con la finale (e un po' prevedibile) “Nessuno sente”, inclusiva di quel “sono fermo alla stazione, perdo il treno”, si lascia definitivamente riflettere circa la mancanza di coraggio nel voler partire (forse verso il cambiamento) ed il preferire piuttosto vivere l’odierno, col suo carico di ordinarietà, talvolta, insopportabile. Questo dei Mons è dunque un album leggero, dall’ascolto facile, dagli arrangiamenti contenuti ma non banali, dalle sonorità non originali ma comunque ben studiate; considerato il fatto che si tratti di un album d’esordio. Ovviamente è un progetto musicale ancora (e giustamente) acerbo ma, data la peculiarità e la scelta dei suoni e delle armonie, pare mettersi sulla retta via e pare voler sperimentare e migliorarsi rapidamente. Allora che fare? Banalmente non si può che aspettare che i Mons, col loro carico di buoni presupposti. Una volta che oramai si è capito che non pioverà più, mettano in cantiere anche l’idea di cantare di come da qualche parte inizi già a splendere il sole. (Vito Pagliarulo)