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BLACK TAIL  "You can dream it in reverse"
   (2020 )

Questo disco è perfetto per il periodo che stiamo tutti vivendo. Va ascoltato senza pensieri, con la testa alleggerita il più possibile.

Questo disco è come un giorno d’estate. Non quelle giornate di agosto umide e afose, però. Diciamo un pomeriggio di giugno, stesi su un prato, con un filo di vento. Pensateci, quando potremo di nuovo uscire.

Mi ricorda un paio di band nostrane che – in anni diversi e momenti diversi – regalarono qualcosa di davvero gradevole: i Winter Dies In June di “Penelope, Sebastian” e i Jarred, The Caveman di “I’m good if yer good”.

In “You can dream it in reverse” (terzo album, pubblicato per Mia Cameretta e Lady Sometimes), il trio pontino Black Tail – Cristiano Pizzuti, Roberto Bonfanti, Luca Cardone - pennella nove tracce di Americana-ma-non-solo screziate di timide suggestioni indie. Canzoni riflessive, rilassate e deliziosamente bucoliche, spesso contaminate da una sottile melanconia. Nove episodi morbidi e gentili, figli di dèi minori: dai Richmond Fontaine all’ultimo Kurt Vile fino ai Wilco, attraversando le lande sconfinate di una musica confortante e delicata, che si lascia godere con la tenue lievità che la definisce.

Pigro e docile, “You can dream it in reverse” ciondola morbido ed amorevolmente indolente, aprendo sul rallentamento mascherato di “China blue (sixteen)”, che si impenna dopo un paio di minuti in un mid-tempo da highway condotto fino al culmine di sei minuti di fragile intensità. La diafana malìa di questa musica garbata sta nella raccolta mestizia dei quasi sette minuti di “The great comet of 1996” come nella soffice aria dilatata di “Sun”, nel ballabile d’antan di una “Late summer” che richiama perfino qualcosa dei Vampire Weekend o dei Son Volt, nel passo laid-back della conclusiva “Firecracker”, non così distante da echi beatlesiani.

Non mancano episodi più sostenuti, ma sembrano quasi un’eccezione: il chorus ampio e disteso di “Stars colliding”, l’elettricità meditabonda di “Apple trees” che potrebbe essere indifferentemente un pezzo degli Oasis o di Josh Ritter, la nervosa compattezza di una “Not ok” che sta tra gli Strokes e i Kinks, con una vocalità tanto allettante da piantartisi in testa e non uscirne più.

Interessanti i testi (grazie alla Metaversus e alle label per averli inclusi nella cartella stampa, autentica rarità), introspettivi ed intimi, ricchi di colore ed intrisi di un inatteso, palpitante naturalismo, compilati in un inglese puntiglioso e rifinito, non certo semplice trasposizione di versi in italiano tradotti alla bell’e meglio. Anche questo è un punto a favore, unito alla musicalità di una proposta che ben volentieri si rifugia nel ventre morbido della tradizione, con il massimo rispetto e la più sincera devozione.

Con una tenerezza che regala quarantasette minuti di sospirata quiete durante la tempesta. (Manuel Maverna)