recensioni dischi
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GOLD CAGE  "Social crutch"
   (2020 )

E’ la cadenza sorniona ed indolente di “Repeater kember”, assopita e diafana come un brano dei Carta, ad introdurre “Social Crutch”, debutto su etichetta Felte del trio losangelino Gold Cage (Monica “Mony” Katz, Cole Devine e Sage Ross, rispettivamente basso e voce, chitarra e voce, batteria).

Morbido, delicato e gradevole come valium per endovena, è un delizioso ibrido di post-punk catatonico e pigro slowcore, tinteggiato di sfumature sulfuree come nebbie colorate. La voce portante è spesso quella di Monica, una carezza catatonica che prende per mano questo pugno di esili canzoni, fragili e trasparenti come cristallo; sono composizioni soffici e svagate che ondeggiano lievemente stralunate tra arie sospese e dilatate dal sentore di Low (“Halcion”), Bodega (“Introduce my mind”), perfino Codeine (il rallentamento esasperato di “What is left”).

Avvolte nei vestimenti leggieri dello shoegaze che fu, “Shadows” e “Ripples” – suggestiva con bell’ impasto a due voci - sembrano quasi outtake di “Loveless” tanto risuonano sfuggenti ed impalpabili tra frasi di chitarra dilatate e un drumming composto che le sostiene con garbo e ben poca invadenza, mentre paiono rimandare ai DIIV di “Is the is are” la slackness monocorde del mid-tempo di “Spaghettify” e l’incedere morbido della successiva “Harshmellow”, ballad deliziosamente inconcludente alla maniera dei Pavement.

La depressa litania in minore di “Creepfest” – intro tremante e sospesa, poi quarantacinque secondi di sussurro a due voci, indi due minuti strumentali che si spengono nel nulla: poco più di un’idea, un bozzetto di canzone che suonerebbe splendida in mano alla coppia Smith/Gallup - è la chiusura ideale di un lavoro inafferrabile che svela goccia a goccia la sua esangue malìa, ad un passo dal nulla. (Manuel Maverna)