recensioni dischi
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GIULIO ALDINUCCI  "Shards of distant times"
   (2020 )

Assemblaggi di piccoli frammenti sonori dal passato creano un intreccio avvolgente, che cattura l’inconscio dell’ascoltatore. In “Shard of distant times”, realizzato per la label Karlrecords, vengono esplorati e sperimentati suoni per aree liminali in paesaggi sonori. E’ una sorta di pareidolia acustica che tende a far sì che la mente percepisca un insieme di suoni o voci assimilabili a qualcosa di già udito prima, qualcosa che emerge dal quotidiano ed anche dal mondo virtuale. Fino a creare delle dissonanze, degli spostamenti, delle inesattezze che si riflettono nell’equilibrio spazio-temporale. Questa, sommariamente, l’idea del musicista sperimentale Giulio Aldinucci, nella creazione di un blend di sonorità interconnesse ed amalgamate, senza una percussione, senza una spina dorsale ritmica a sostenere l’impianto. Solo tappeti sonori composti da vocalità ed astrattezze, che, ad un’ascolto attento, lasciano vagare la mente. Quasi la agevolano a fuggire e librarsi nell’aria, sotto forma di energia. Immutabile ed immateriale. Dunque, un album ambient. Però non un ambient positivo-a-tutti-i-costi, non rassicurante e rilassante, di quelli più mainstream da fruire, ad esempio, nelle spa. E’ un ambient denso di sonorità spesso preoccupate, tese, negative, melanconiche. Armonizzazioni in minore anziché in maggiore. Ambientazioni e scenari sonori che ricalcano la notte, la neve, l‘oscuro, il mistero. “Every forgotten word” è un tappeto di sonorità che pare prenda forma da vocalizzi di cori, da parti cantate da un nascosto soprano. Pare si slacci ogni tanto dall’intreccio saldo stabilito dall’artista, solo per farsi appena riconoscere. Simili impressioni derivano poi anche dall’ascolto di “Fractal tears”. Qui le vocalità spesso si confondono con un suono simile ad un organo di chiesa; un accordo fisso in SI minore. E quando tutto si confonde ed il suono si gonfia, la mente figura qualcosa di mastodontico che prende forma e si prepara a spiccare il volo, per poi scomparire. In “Phoenix” invece sembra percepire i suoni di una metropoli, condensati, pronti ad espandersi e miscelarsi con una miriade di voci nascoste, tutto in una nuvola di suono. Poi “The overtuned abacus”, vale a dire un discreto ma intenso tappeto sonoro per una scena di un film thriller. Una scena ad alta tensione che però dura oltre sei minuti. Lo stesso vale per “Not enough memory”, con molta più tensione emotiva e cupezza d’animo. In “Kids playing with iron slags (beach scene)” ci si connette con un’ambiente ampio, infinito, irraggiungibile dallo sguardo e pauroso; come potrebbe essere il mare in tempesta. Infine “Rhizomatic realities”, che chiude l’album, ha quel misto di inquietudine e mistero che traspare dai suoni assemblati, voluti per instillare il dubbio nell’ascoltatore ignaro al primo contatto. V’è da dire che è onnipresente in quest’album l’idea dell’immensità, dell’espansione, dell’enormità che man mano prende forma e tende a crescere, in maniera lenta ed inarrestabile. Questa idea di immenso, di infinito, tipica dell’ambient, viene dunque a ritrovarsi e riconoscersi anche qui. Solo che, qui, v’è un concetto di ambient non fungibile, non spendibile in contesti non pertinenti, non agevolante la fruizione dell’idea al fine di renderla più accessibile. Questo è un ambient che vuole restare puro, radicato e radicale, che pretende di essere analizzato con l’orecchio fine dell’ascoltatore, interessato solo alla ricerca del suono. E’ un po' una via di mezzo tra il sogno e la realtà, il pensiero e l’inconscio, la ricerca dello scenario, dell’ambientazione, del paesaggio sonoro adatto. E’ dunque l’analisi (cosciente od inconscia) del suono. (Vito Pagliarulo)