recensioni dischi
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CORDE OBLIQUE  "The moon is a dry bone"
   (2020 )

Profondamente e saldamente radicata nell’humus della nostrana tradizione meridionale, la proposta del collettivo napoletano Corde Oblique abita da ben tre lustri – ai quali andrebbero aggiunti anche i trascorsi del progetto Lupercalia, che tra il 2000 ed il 2004 ha fruttato due interessanti album improntati a sonorità neomedievali à la Dead Can Dance – un milieu impregnato di arte, folklore, poesia e cultura.

Creatura nata dalla ricerca profonda e variegata di Riccardo Prencipe (Conservatorio in chitarra classica), fin dagli esordi vanta un approccio garbato e rifinito, all’insegna di un sincretismo compìto che media fra istanze popolari e colte dando vita ad un fascinoso, suadente percorso.

Introdotto dal pregevole artwork di copertina ad opera di Hardijanto Budiman, aperto e chiuso da due rarefatti strumentali atmosferici per chitarra ed archi (“Almost blue”/”Almost blue II”), “The moon is a dry bone”, pubblicato ancora per la tedesca Dark Vinyl come il precedente “Back through the liquid mirror”, è l’ottavo lavoro di Corde Oblique, alla pari dei suoi predecessori abile nello snodarsi tra suggestioni più marcatamente cantautorali (“La strada”, dolente ballata in minore à la De Andrè affidata al crooning intenso e accorato di Andrea Chimenti) ed episodi apparentemente slegati dal contesto (la nervosa aggressività della title-track nell’intonazione aspra di Rita Saviano), mai smarrendo il legame con l’usuale aggraziato lirismo e le raffinate, squisite trame.

L’alternanza di interpreti ed il susseguirsi di diversi modi espressivi conferisce a “The moon is a dry bone” l’abituale stilla di imprevedibilità, infusa nei territori prossimi al progressive de “La casa del ponte” (con la recitazione incalzante di Maddalena Crippa) e nell’inattesa evoluzione de “Il terzo suono” (voce di Miro Sassolini, indimenticabile nei primi Diaframma fino a “Boxe”), passando per il canto terso, vibrante e melodioso di Caterina Pontrandolfo, poliedrica artista lucana ed immancabile presenza a fianco di Prencipe sin dagli esordi. E’ lei a colorare di tinte mediterranee la limpida lucentezza di “Le grandi anime”, la languida “Herculaneum”, impreziosita dalla fisarmonica di Carmine Ioanna, l’aria trasognata e fiabesca de “Il figlio delle vergini”.

Il palpitante gorgheggiare mediorientale di Denitza Seraphim, artista bulgara già vocalist degli Irfan (piccolo segreto ben custodito e vertice di una world-music mistica e raccolta) contrappunta le percussioni frenetiche de “Le torri di Maddaloni”, mentre è ancora Rita Saviano a regalare alla cover di “Temporary peace” (da “A fine day to exit”, 2001) degli Anathema, band di Liverpool già omaggiata con una brillante versione di “Flying” su “The stones of Naples”, una veste differente dall’originale, intrisa di una sottile tensione che ne muta l’afflato primigenio, spegnendosi in due minuti di una coda eterea per pianoforte e piccoli disturbi. Ciò che serve a tracciare il cerchio perfetto di un’opera ricca e sfaccettata, riflessiva e distesa a tratti, ma perennemente vitale e pulsante sotto il suo manto elegante. (Manuel Maverna)