recensioni dischi
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CHESTER GORILLA  "Chester Gorilla"
   (2020 )

Direttamente dal sottosuolo palermitano, carichi di energie, alla fine di un percorso in direzione ritrovo della propria identità, pieni di speranze jazz/rock/fusion, arrivano, col sottofondo ed i rumori della giungla, i Chester Gorilla. “Se le scimmie potessero arrivare al punto di annoiarsi, potrebbero trasformarsi in esseri umani”. Chissà se tale concetto, alla base della produzione di questa band, non sia effettivamente fondato su elementi solidi, tali da far interrogare se i componenti abbiano l’animo delle scimmie o invece si siano già annoiati. In ogni caso, il collettivo opportunamente predilige situazioni musicali, per citarne alcune, del calibro di Frank Zappa, Weather Report, Return to Forever, Miles Davis, John Coltrane e Yellowkjackets. In più di un’occasione è possibile udirne gli echi sinfonici. Ecco allora che arrivano dopo un Ep di esordio del 2011, dopo tumulti e letarghi, con questo nuovo album dal titolo omonimo. E’ un album che necessita di pochi preamboli od orpelli. Per lo più strumentale, composto da sei brani che hanno una certa forma dinamica. Dinamica nel senso di simpatica miscellanea di sonorità jazz/rock/fusion, non appesantite per l’orecchio dell’ascoltatore profano. Dunque, un frullato musicale che, complice anche la post-produzione, assume una veste decisamente friendly, con sonorità che fan sì che i passaggi musicali più complessi non vengano noisamente marcati. Forse in ossequio al principio secondo il quale in Italia (purtroppo) non c’è una cultura musicale fusion tale da essere ottimisti. Orbene, i Chester Gorilla pare intendano riferirsi a tutti, non relegarsi nella categoria delle bands che fanno genere di nicchia. Motivano tali circostanze con i brani della loro produzione. Con quel “Puippara” in cui si esaltano parti strumentali di flauto traverso, sì da conferire al brano una certa veste seventies. Di tipo progressive, però. Poi i vari passaggi marcati anche in sax tenore e le varie liberazioni chitarristiche. Fino al successivo “Shesone”, ove si entra un po' più nel merito, con sonorità che lentamente prendono forma e si articolano e ritmicamente chiedono di essere opportunamente marcate anche da percussioni. Un brano che sembra la track per un viaggio notturno tra le strade vuote di una città; ma sembra anche altro, come conferma la seconda parte. “Peter the elephant” è chiaramente di zappiana estrazione, scherza con i movimenti ritmici e melodici per darci l’idea della instabilità rock-fusion. E pare appartenga alla intenzionalità il raffigurare coi suoni un percorso instabile, che non esprime fiducia, come al sentiero di una giungla. Simile discorso vale anche per “Aripopullo space” (cui già il titolo richiama una certa attenzione) e per “Guacamole”. La tipica instabilità fusion sperimentale gioca un ruolo fondamentale. Con tutte le variazioni, cambi di intenzioni, ritmiche elaborate, parti soliste per chitarre e fiati che si rincorrono e si sovrappongono. Ed infine, l’unico brano cantato dall’ospite Sergio Beercock, “The heat”. Con una veste più accessibile e radiofonica, ma non posticcia. Un brano che regala un momento a tratti un po' più jazz, con suggestive parti di tromba, per poi inerpicarsi in sentieri un po' sperimentali, con sonorità che certamente incuriosiscono. Fino a risalire e concludere l’opera con un saluto musicale che forse avrebbe necessitato di un po' più d’enfasi, sul finale, e di una coda un po' duratura. In ogni modo questo album è un buon prodotto. Da consigliare a chi tranquillamente viaggia sulle trame fusion ma anche a chi non è del tutto addentrato nel genere (o generi). E’ un qualcosa da cui in ogni modo traspare un certo entusiasmo, che merita di essere onorato quantomeno con l’ascolto. E ascolto sia. (Vito Pagliarulo)