recensioni dischi
   torna all'elenco


SEB BRUN  "Ar ker"
   (2020 )

L’ibridazione tra percussioni ed elettroniche non può considerarsi formula certo nuova ma, quanto all’esito estetico di tale cimento, esso dipenderà dal grado di progettualità e dalla visionarietà in termini di sound-design; forse anche (e non troppo paradossalmente), nel caso dei musicisti di formazione percussiva e/o batteristica, dalla disponibilità a sacrificare alquanto il proprio instrumentarium (o gesto) percussivo a favore del risultante suono di sintesi.

Sacrificio verosimilmente oneroso ma produttivo stante quanto sembra raccogliersi (almeno in parte) dagli esiti di Ar Ker, opus individuale del battitore e creativo transalpino Sébastien Brun, qui devoluto su batteria, elettroniche e voce, e che abbiamo invitato a condividere con noi (a distanza più che sociale e con filo diretto in web) le impressioni d’ascolto, infittendole di utili nozioni e commenti.

Ho studiato alcune musiche considerate tradizionali (benché io non sappia che farmene di un simile termine), ma in Rajastan, in Etiopia o a La Réunion le percussioni vi rivestono un ruolo di canto”.

Se l’intro è in effetti connotato da alcune esotiche coloriture vocali ascrivibili alle esperienze di viaggio del Nostro, articolate tra le suddette aree, l’esito non riesce particolarmente personale (e, giusto per spirito d’assimilazione, non troppo dissimile da quella di eclettici performers tali Richard Bona o Mino Cinelu) ma se ne coglie una progressiva strutturazione in forma d’incantatoria cantilena che va quindi incarnandosi in un passaggio di organica e potente sintesi percussivo-elettronica, di vocazione ipnotica e non poco sciamanica, con progressiva disgregazione della pulsazione ritmica ma anche con segni in crescendo della partecipazione fisica del battitore, puntando verso piste più lisergiche e relativamente rockeggianti, per poi acquisire fuori schema anche segni techno e dance.

Insomma, un plastico canovaccio in cui si va abbandonando ogni risaputa fisionomia da drum-set in azione, per convergere verso un flusso ritmico-figurativo via via più strutturato e possente, che potrebbe (e nemmeno troppo alla lontana) richiamare, seppur con progettualità assai personale ed un’illusoria cornice da comfort-zone, di fatto ansiogena, l’operato di assimilabili percussionisti creativi, tali il nostro Michele Rabbia o l’elvetico Samuel Rohrer, in cui la tessitura ritmica sembra trasformarsi in un flusso melodico.

Se non conosco del tutto il lavoro di Samuel, mi riconosco completamente nell’approccio di Michele; e comunque tutti noi tre operiamo incorporando il medium elettronico, magari per estendere il canto (e non il campo) della batteria”.

Per un (dichiarato) percussionista e sperimentatore come Seb Brun, il “sacrificio” non è dunque a carico del gesto percussivo (in effetti assai veemente, e turbolento a tratti) quanto appunto della performance batteristica di maniera, a tutto vantaggio di un’eruttiva espressione; ad esempio un passaggio di critica densità quale Empty “contiene la giusta concentrazione di barbarie, surrealismo, meccanica, vuoto e deprivazione” secondo le parole di Brun, certamente espresse ben fuor di banalità, lasciandoci aperto il quesito circa la netta presa di distanza da ogni palese fisionomia jazz, vista la sua dichiarata formazione che vanta ascendenze nella prestigiosa legacy di Steve Coleman, così come nelle ispirative figure di batteristi tali Tom Rainey o Jim Black.

E’ già da un po’ che io torno al concetto di quanto il termine “jazz” sia complicato da definire, e dunque non rientrerò nella problematica dell’amalgama con l’estetica jazz, chiedendomi se i suoi confini si arrestino al free... o al noise; persiste tutto un dibattito sulle sue frontiere, sulla sua permeabilità. Il jazz newyorkese degli anni ’90-2000 fa totalmente parte della mia cultura, mi ricordo di quanto sia stato folle l’ascolto a distanza ravvicinata di Jim Black, esperienza determinante che mi ha condotto a fare con lui diversi workshop, ed ugualmente sconvolgente l’ascolto di ScienceFriction con Tom Rainey, in tutti questi casi l’approccio melodico della batteria e la nozione di canto della stessa sono assai evidenti”.

Sospinti da una determinante combinazione di groove e drone, i crudi e catartici materiali di Ar Ker concretizzano una lezione, non certo involontaria, di organica sintesi dagli esiti non scontati, stante l’elevato grado partecipativo imposto (più che suggerito) all’attore-ascoltatore, avocando primariamente il diritto di agire al di fuori del canone stilistico e, concludendo con le parole dell’Autore : “Riprendo ancora la mia domanda: dove ha termine il jazz? Forse non è altro che un modo di fare e vivere, e trasmettere un senso della musica, non soltanto concatenazioni d’accordi, ed amo la cornice posta da quei grandi musicisti: principi semplici (o complicati) per cui tutto è permesso!”. (Aldo Del Noce)