recensioni dischi
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COSSE  "Nothing belongs to anyone"
   (2020 )

Cosse è un progetto musicale singolare. Un progetto di quattro ragazzi francesi. Si delinea da subito un’aura musicale di mistero, ermetismo, impenetrabilità. Sentimenti che aleggiano già ai primi ascolti del loro materiale sonoro. Un materiale fatto di arpeggi chitarristici ampi, paesaggi sonori intensi, angoscianti, oppressivi. Cambi di ritmo leggeri. Attacchi distorti repentini. Ipnotismi raffinati, creati con la consapevolezza di rompere un certo muro di suono. Superare una certa sfera di suono ideale, che ognuno potrebbe aspettarsi dietro il tratto di un passaggio musicale. E’ la sorpresa del suono nel suono. Più semplicisticamente, è un misto di post rock e noise, armonie nervose e magmi di feedback che inghiottono l’ascoltatore in un denso cumulonembo. Influenze di band di riferimento come Girl Band, Slint e Sonic Youth si sentono qua e là in questo loro primo EP di esordio “Nothing belongs to anyone”, appena realizzato per le labels A TantRèverDu Roi/Grabuge Records. Non è infrequente, tra l’altro, ascoltare anche certi arpeggi e ambientazioni facilmente assimilabili ad alcune genialità alla Radiohead di “Kid A” e “Amnesiac”. Il videoclip dell’ultimo brano dei cinque che compongono la produzione, “The ground”, primo singolo estratto, è descrivibile alla stregua di un incubo in cui non c’è risveglio. Ove il personaggio è costantemente inseguito da una minaccia sfuggente. Spazi, volti, cambiano intorno ma la sensazione di oppressione è persistente. Una fuga senza fine che non ha via d'uscita. In un’atmosfera garantita soprattutto dal brano e dalla sua varietà musicale. Autenticamente sfuggenti, misteriosi. Dai tratti musicali che sembrano includere messaggi subliminali in ogni singolo passaggio. Fino all’epilogo distruttivo e collassante, in un magma di feedback. L’inizio dell’EP è invece rappresentato da “Welcome newcomers”, che fa molto Radiohead. Poi, entrando nel merito, ci si tuffa in una serie di variazioni che rendono l‘ambientazione sospettosa. Come se prima o poi qualcosa nel brano dovesse per forza accadere. Un aura grigia che persiste ed accompagna al successivo “Pin skin”. Il brano che sembra calmare l’ansia trasmessa dal precedente, con qualche cantato con voce roca, che rende addirittura il tutto un po' più umano di quello che sembrava. Ma insorge la variazione ritmica, che getta nuovamente nella prostrazione da incomprensione. Ed è una incomprensione felice, che fa essere contenti di aver fatto la scelta giusta ed avere ascoltato musica nuova. Con “Sun, forget me!” si insiste nella variazione e nella complessità, con proposizione e definizione di quello che è stato introdotto già con i precedenti brani. “Seppuku” è invece il brano strumentale che, insieme a “The ground”, rappresenta il manifesto d’intenti sonori della band. Una serie di fasi musicali alterne, tra un intro arpeggiato e misterioso, alla stregua di un progressive degli anni settanta del secolo scorso, ed un attacco di furia cieca, distorta ed avvolgente. Poi stacchi, pause, riprese, isterie musicali. Tutto ciò è il manifesto di una band che attinge i migliori caratteri dalla musica che la influenza e ne trae un sound-condensato, un infuso da somministrare all’ascoltatore, inerte. Di fronte ad un profluvio di stati d’animo, di sensazioni inspiegabili. Un sound misterioso, alterante, contaminante. Forse, meglio, contagioso. E’ un contagio sonoro che rende, a primo acchito, inconsapevoli. E’ il fascino incontenibile della perdita di controllo per causa musicale. (Vito Pagliarulo)