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THE K.  "Amputate corporate art"
   (2020 )

Allora, sentite questa: ci sono tre belgi di Liegi, c’è il loro terzo album a cinque anni di distanza dal precedente, addirittura otto anni dall’esordio, e c’è un canovaccio, una musica antica come il mondo, trentacinque minuti ruvidi come carta vetrata.

E fin qui nulla – assolutamente nulla – di nuovo.

Scendendo nel dettaglio: là dove non poté la scrittura, potè l’attitudine.

Nove martellate slabbrate e perfino un bel lentaccio (“Everything hurts”), ma storto pure quello, con una progressione di accordi che ad un certo punto ti lascia lì con due buchi nel naso a sorprenderti.

E’ che sono tempi così, in cui è oramai merce piuttosto rara il caro vecchio rock suonato in power trio con le chitarre – le chitarre! – cattive cattive e il tizio alla voce che grida come un ossesso.

C’è la cadenza mortifera di “Petty profit”, c’è il basso sparato in overdrive nella conclusiva “(Un)fortunate youth”, che vaga in un sabba di stop-and-go nel suo frastuono sbavato; c’è lo sdegno scazzato di una magistrale “Dominant tracks”, l’accelerazione acidissima di “The rougher aspects of love”, l’inquieto retrogusto math di “Keep my nightmares cold”, mentre ovunque spuntano come funghi (velenosissimi) linee da post-punk agitato, roba da Idles o da Oxbow.

Tanto agitato e sghembo che dà perfino un po’ fastidio, perchè vorresti avere – che so – un ritornellone da mandare a memoria e latrare in macchina col finestrino giù alle due di notte: e invece questo pugno di sassate squadrate mantengono intatti e acuminati tutti i possibili spigoli negando spendibilità di maniera, accessibilità per le masse, frizzi&lazzi&divertissement.

Ecco, questi tre signori cattivi cattivi non concedono un istante di leggerezza: non nell’apertura da tre minuti di “The future is bright”, che dovrebbe rappresentare il singolo di lancio (si diceva così, no?), neanche nella successiva “Shit day”, con Sebastien von Landau impegnato a gorgheggiare - anthemico e bislacco - in un crooning tanto sguaiato e sgangherato che gli varrebbe l’amicizia di John Lydon su Facebook.

Per fortuna, in ogni pezzo c’è sempre e comunque qualcosa che non va: una deviazione, un urlaccio, un’idea balorda, una qualsiasi boutade che rende The K. non soltanto l’ennesima replica del clichè, ma qualcosa di golosamente gustoso da masticare.

Feroci, ruvidi, crudi e pestoni: insomma, una gioia. (Manuel Maverna)