recensioni dischi
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ELLEN FULLMAN & THERESA WONG  "Harbors"
   (2020 )

Harbors, l’album collaborativo di Ellen Fullman (Long String Instrument) e Theresa Wong (violoncello) appena uscito per Room40 Records, crea scenari inquietanti e fantastici attraverso sottoinsiemi di aree tonali create dal violoncello e dall’installazione artigianale e sonora (Long String Instrument) ideata e costruita da Fullman, che è lunga una ventina di metri e inserisce l’ascoltatore all’interno dello stesso corpo risonante.

Tutto ciò che riguarda l’acqua e ciò che da essa nasce, cresce e si propaga è fonte d’ispirazione per Harbors, progetto ambizioso e intrigante che vede insieme Ellen Fullman e Theresa Wong, due tra le figure più intriganti della classica sperimentale contemporanea. Da un lato c’è Fullman che, con la sua creazione geniale – un’opera d’arte a sé – rappresentata dallo strumento che suona, immerge l’ascoltatore in un’esperienza abbacinante e sgargiante, un propagarsi di onde materiche che precipitano l’uomo in una dimensione lontana e archetipica, bagnandolo del brodo primordiale di cui tutta la materia è fatta. Dall’altro c’è Wong, il cui violoncello crea architetture dal nulla, crea spazio dove non c’è materia, riempie i vuoti e dà aria ogni volta che serve. Si tratta, in entrambi i casi, di esecuzioni fisiche: i musicisti si fondono col proprio strumento, si attaccano a esso, ci vivono dentro.

Harbors è suddiviso in tre parti, tre pezzi ostici e lunghi che lanciano sfide all’ascoltatore. Si entra in un vortice di suoni primordiali, provenienti da luoghi lontani, universi impossibili che sembrano crearsi dentro le nostre orecchie. Il violoncello di Wong e l’installazione sonora di Fullman, più che dialogare, sembrano corteggiarsi, alternarsi e congiungersi, tentare di costruire un dialogo dove non ci può essere più parola.

La cavalcata trionfale che è il pezzo più lungo, quello di apertura, luminoso e selvaggio, sembra trovare una antitesi nel minimale e sinistro secondo brano, una catena di suoni oscuri e taglienti, che procede come in una marcia funebre. Un’altra, coraggiosissima applicazione di queste sonorità è il terzo brano, sorta di sintesi delle potenzialità più estreme degli strumenti chiamati in causa (e dei loro “padroni”), che nei suoi tredici minuti prova a mantenere inquieto l’animo di chi ascolta, tra passaggi cerebrali e drammatici e momenti di pace insperata. Harbors è un affresco multiforme e intrigante. (Samuele Conficoni)