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DEEP PURPLE  "Whoosh!"
   (2020 )

Senectus ipsa est morbus”. Questo noto verdetto emanato dallo scrittore latino P. Terenzio Afro (IV sec. a.c.) e ripreso dai classici (Seneca, Orazio), bollava la vecchiaia come periodo della vita irrimediabilmente segnato da decadimento fisico e mentale, sofferenza, limitazioni, malattia. Questa visione cupa veniva contrastata da Cicerone nel De Senectute dove, pur non minimizzando i malanni del corpo, ne esaltava le potenzialità interiori (saggezza, armonia, dominio delle passioni) che potevano essere sviluppate attraverso “l’arte di invecchiare”. La visione negativa della vecchiaia ha attraversato i secoli senza soluzione di continuità fino ai nostri giorni, resistendo ai tentativi di confutazione fondati sulle più recenti acquisizioni delle neuroscienze (plasticità cerebrale, diversità delle componenti della memoria e dell’intelligenza, ruolo dell’esperienza e della creatività).

Fuor di metafora: la mitica band che siamo qui onorati di recensire non chiama certo in causa la carta d’identità (i nostri musicisti, benché attempati, sono ancora dei “bimbi”, si direbbe dalle nostre labroniche parti) bensì la “vecchiaia artistica”, trattandosi di una formazione che due anni fa ha festeggiato il cinquantennale di un’attività che ha scritto la storia dell’hard rock (il gruppo tutt’oggi conserva ben tre elementi della formazione originale, Ian Gillan, Ian Paice e Roger Glover, il che non può non aver lasciato il segno sul piano qualitativo e identitario). Eppure, quella macchina consumistica produttrice di musica usa e getta propinataci h 24 dal mainstream mediatico, funzionale al modello economico dominante che, per dirla con Battiato (Bandiera bianca, da “La voce del padrone”, Emi, 1981), ci “sommerge d'immondizie musicali”, tende non solo a considerare la vecchiaia anagrafica un prodotto di scarto, ma a rottamare la “vecchiaia” artistica con i relativi talenti e bagagli esperienziali per celebrare il “nuovo che avanza”, di facile fruizione e soggetto all’obsolescenza programmata. Il riferimento introduttivo alle fonti classiche e l’accostamento fra i due ambiti dello stesso fenomeno (vecchiaia anagrafica, vecchiaia artistica), pertanto, non ci è parso del tutto peregrino.

Prima di immergerci nell’analisi dell’ultimo nato in casa Deep Purple, consentiteci quel doveroso quanto scontato timore reverenziale che si prova di fronte alle icone per antonomasia dell’hard rock, quella sorta di brivido sperimentato quando ci troviamo a certe altezze, come ben sanno tutti gli appassionati di montagna.

Ventunesimo album studio pubblicato a distanza di tre anni dal bellissimo Infinite (2017), Whoosh! si presenta con una prima parte complessivamente più corale e ricca di musica di insieme con un (relativo) minor spazio alle parti soliste, cui fanno seguito episodi densi di quegli inconfondibili virtuosismi che ci attendiamo da musicisti di siffatta stoffa: del resto, come si dice ancora una volta dalle nostre (toscane) parti, “non si frigge mica con l’acqua…”.

Già con i precedenti album, ma a maggior ragione in quest’ultimo, i principi dell'hard’n heavy, hanno ormai lasciato il posto a nuove, più morbide e sofisticate sonorità. Appaiono lontanissimi, e non solo per i molti anni trascorsi, i tempi delle pietre miliari In rock e Made in Japan: il loro sound si è fatto meno duro, lasciandosi alle spalle le trame metalliche per toni più soft, senza tuttavia incanalarsi in brani sonnacchiosi (un esito di frequente riscontro in simili trasformazioni) e riuscendo a mantenere una vena tonica e frizzante, aggressiva quanto basta. Se le qualità strumentistiche dei singoli componenti del gruppo sono fin troppo note (e non si discutono), ci siamo imbattuti nella piacevole sorpresa, o meglio nella conferma di quanto avvertito negli ultimi album, della evoluzione vocale di Ian Gillan, autentico signore del microfono che, pur non esprimendo lo smalto rock dei vocalizzi botta e risposta con chitarra e pubblico tipici della sua giovinezza, non solo mantiene immutato il suo inconfondibile timbro, ma il tono, come un buon vino d'annata, è diventato più caldo e armonioso equilibrandosi alla perfezione con la rinnovate sonorità della band.

Si parte in quarta con Throw my bones, brano inconfondibilmente purpleiano che irrompe con un trascinante mid tempo e una melodia dal retrogusto dolce-amaro modulato dalle sottese trame dei magici tasti d’avorio di un Don Airey in grande spolvero (caratterizzato da un signorile understatement, questo eccezionale musicista ha militato in top-band quali Colosseum II, Rainbow, Ozzy Osbourne, Whitesnake e vanta un numero infinito di collaborazioni con artisti del calibro di Gary Moore, Bruce Dickinson, Cozy Powell, Saxon, Judas Priest, Jethro Tull… può bastare?). Il riff di chitarra di un superlativo Steve Morse, seguito da maestosi di accordi in tonalità maggiore, ci catapulta in un'atmosfera gioiosa di sapore “yessiano” che giova allo spirito.

Drop the weapon apre con una breve intro di chitarra distorta seguita da arpeggi d’organo che esitano in un ritmo battente, seducentemente ossessivo, sorretto da quel rodato sincronismo Paice-Glover che riuscirebbe a far muovere anche i sassi. Il ritornello supportato da aperture corali di ampio respiro, provvidenziali per il tono dell’umore, culmina con la frase evocativa “Peace and Love” seguita da magistrali ed avvolgenti duetti fra l’elettrica di Morse e l’hammond distorto e tremolante di Don Airey.

Le inconfondibili trame melodiche blues arricchite da deliziose cesellature chitarristiche e vocali di We are all the same in the dark hanno una presa tale da farti venir voglia di fischiettarle, riuscendo nel contempo a mantenersi a debita distanza dagli ingannevoli richiami delle sirene pop (orribile visu!).

Con Nothing at all si va in orbita, essendo di fronte a un brano con tutte le potenzialità da hit, dove le magiche dita di Steve Morse e Don Airey dialogano volando leggiadre su corde e tasti d’avorio regalandoci supersonici fraseggi classicheggianti sincronizzati alla perfezione. Il tutto, sostenuto dal consueto egregio lavoro di basso e batteria del rodatissimo duo Glover-Paice, imprescindibili colonne portanti del marchio Deep Purple.

Un hammond distorto e un aggressivo giro di chitarra elettrica aprono e connotano No need to shout, dove Gillan sfoggia una esecuzione impeccabile, al massimo della espressività ed intrisa di quella combinazione di grinta e raffinatezza che lo contraddistingue da sempre. E anche qua non poteva mancare l’intervento di un potente riff elettrico indispettito e lamentoso, cui fanno eco vertiginose scalate di piano battente blues-oriented da fare accapponare la pelle.

Solenne e maestoso il breve incipit tastieristico di Step by Step (se non fosse per la brevità, sarei tentato di accostarla alla meravigliosa intro dell’osbourniana Mister Crowley suonata dalle stesse mani), guidato da una ritmica caracollante in cui si stagliano deliziose voci sovrapposte intervallate da un solo di chitarra altamente espressivo.

Let's go rock’n roll people! Con What the what che inaugura il “lato B” (obsoleta ma chiara dicitura legata al nostro amato mondo pre-digitale) si rende omaggio ad orizzonti retrò rappresentati da una vocalità di Ian Gillan perfettamente adatta al contesto (ricordo il suo recente album Ian Gillan and The Javelins, 2018) supportata da un piano honky tonk e sottofondo di hammond vibrato alternato dall’immancabile solo di chitarra elettrica, danno l’impressione di trovarci in un far west saloon (“non sparate sul pianista!”).

Nessuna tregua con il brano successivo The long way round, le cui tessiture armoniche costruite su una ritmica serrata vanno a formare un groove seducente in cui “… è dolce naufragar”. Emerge superbo il synth glissato di Don Airey seguito da un motivo di chitarra carico di pathos, quindi da raffinati sottofondi corali e da un ritornello che resta ben impresso. La traccia chiude con un'atmosfera enigmatica composta da note rade e una suggestiva timbrica spaziale.

The power of the moon titola un brano fortemente immaginifico ed evocativo che ci proietta in una dimensione affascinate e ignota, se vogliamo tipica del mondo lunare. La tensione si risolve in un ritornello arioso per poi ripiombarsi nell’enigmaticità, disegnando un saliscendi sonoro assai vicino agli stilemi del progressive (ci consentite ancora una volta un richiamo agli Yes?). In questa equilibrata alternanza buio-luce (del cosmo? Della coscienza?) trovano spazio sofisticati ricami chitarristico-organistici per poi sfumare negli intriganti arpeggi iniziali.

Le sensazioni di enigmaticità proseguono con Remission possible, breve traccia inaugurata da un hammond acido e da una inquietante ritmica ossessiva su cui si passano la staffetta i consueti soli tastiera-chitarra preparando il successivo Man alive.

Il brano, colmo di pathos, è imperniato su un sottofondo di archi e da radi arpeggi, con una voce sussurrante che lascia il fiato sospeso fino agli imponenti stacchi strumentali e al cantato sdoppiato di Ian Gillan. Un’attesa schitarrata liberatoria prelude al cantato (e rinarrato) conclusivo: pura goduria musicale in grado di accontentare i progster più schizzinosi.

Ci si avvia alla fine e quindi è bene prendere fiato: cosa se non di meglio di una traccia rock à la Deep Purple? Eccoci accontentati, sia con And the address che chiude il CD, sia con il bonus track Dancing in my sleep introdotto da un breve ed accattivante arpeggio di synth che fa da preludio ad una ritmica trascinante. Il ritornello, gioioso e di immediato impatto, è seguito dal consueto dialogo tastiera-chitarra (repetita iuvant!) con chiusura sfumata a richiamare l’arpeggio iniziale.

Tirando le somme, Whoosh! non può definirsi propriamente un disco progressive, e da un gruppo con un pèdigrèe da “duri” non potevamo certo pretendere tanto, ma, detto fra noi, una strizzatina d'occhio al genere più amato dagli scriventi l'hanno indubbiamente data, e chissà se l'astronauta raffigurato in copertina non voglia rappresentare, in un "Ha toccato" di TitoStagnana memoria quando vedevamo la televisione in bianco e nero, l'approdo, dopo un lungo viaggio nel lucente mondo metallico, sul pianeta prog, da sempre mondo più contemplativo e immaginifico.

E dunque giù il cappello siore&siori: i vecchi leoni son tornati a ruggire dimostrando che i loro talenti non risentono in alcun modo dei segni del tempo, a conferma delle tesi ciceroniane (con buona pace di Tacito): Senectus? Non solum morbus! (MauroProg&AlbeSound)