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FAKE JAM  "Downtown"
   (2021 )

Inizia con “Downtown” (distribuito dall’etichetta italo-tedesca Rubik) il viaggio discografico di questa big band bolognese di sette elementi che sfoggia un sound esplosivo in dieci brani carichi di energia pura.

Il segreto dei Fake Jam sta negli ingredienti, tutti di ottima qualità: roventi chitarre funky, fiati a pompare spaziando dall’acid jazz al soul, una pulsante sezione ritmica a dettare il groove, più percussioni varie per condire il tutto e dare quel sapore esotico che non guasta mai, e poi… la marcia in più, un cantante, quel tanto sborone, da essere molto a suo agio nella parte del protagonista intrattenitore.

Cambi di ritmo e dinamica, stop, ripartenze, spazi solisti per trombe, percussioni, basso, chitarre, tanto funk ma anche soul, reggae, hiphop e rock: ”Downtown” è un album veramente ricco.

E tutto sembra facile, e infatti per loro lo è, o almeno lo fanno sembrare, trasmettendo anche il divertimento che provano suonando.

Il loro è un mondo coloratissimo e attraente come le insegne del centro città, quel “Downtown” del titolo che la band però vuole esorcizzare nei testi delle canzoni, come simbolo di un sistema illusorio e ricco di trappole, per svelarne tutta la sua falsità e per costruire i pilastri di un futuro migliore.

Il primo brano a colpire è la title track (già uscita come singolo) “Downtown”: su chitarre alla Nile Rodgers e fiati acid jazz troneggiano i proclami anti dipendenze dell’istrionica voce di Mattia Elmi. “Fake News” è una critica al mondo dell’informazione che si apre con voce del tg che annuncia una falsa notizia sull’ex presidente degli Stati Uniti, per dirigersi poi verso i lidi dei Beastie Boys più crossover. “Let us be” è la bomba del disco, un urlo liberatorio tra chitarre serrate, ottoni a tirare e ritornello con tanto di controcanto femminile… beh, se stati fermi anche qui allora siete in lockdown. “Urban jungle” è un crossover strumentale tra percussioni tribali, chitarre distorte e fiati jazz, da Santana a Miles Davis, da New York a Cuba e ritorno. Stiloso anche “Blackjack”, tra voce Jamiroquai e ritornello che assesta un altro colpo da KO. Poi il torrido funk reggae ”I don't care” ci invita a spegnere la tv, mentre la confidenziale “Naive Soul”, più la ripresa chill-out con tastieroni alla Moby, chiudono con classe i giochi.

Gira a mille il motore dei Fake Jam, e fa decollare in alto la loro musica che rilascia scie di positività danzereccia per schiodare da sedie, poltrone o da ogni altra posizione supina lo stupito ascoltatore.

Certo, è un genere forse non più sulla cresta dell’onda e con qualche soluzione un po' telefonata, già sentita ma, per la capacita di maneggiare la materia e la bravura degli interpreti, questo disco tira dentro dall’inizio alla fine. E non oso pensare come siano i live, di questa band...

Speriamo di vederli all’opera, prima o poi. (Lorenzo Montefreddo)