recensioni dischi
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THEE MORE SHALLOWS  "Dad jams"
   (2021 )

Ci sono dischi che sbucano fuori da una qualche bolla spazio-tempo non meglio identificata, dischi incollocabili nel quadro generale, nè ascrivibili ad un genere, una moda, una tendenza, un periodo storico. Mosche bianche, casi isolati, punti interrogativi.

Succede allora che vent’anni fa il cantante e chitarrista Dee Kesler formi a San Francisco questa band chiamata Thee More Shallows. Sono un trio, piuttosto aperto ad intrusioni e collaborazioni: tra il 2002 ed il 2007 pubblicano un paio di ep e tre album, l’ultimo dei quali (“Book of bad breaks”) sembra scrivere l’epitaffio del gruppo, rimasto sempre ai margini del gioco, eppure con una propria identità ed un variegato repertorio. Allettante, accattivante, sufficientemente disallineato da definire una scontata e doverosa appartenenza al mare magnum dell’indie-rock. A quell’epoca, avevano qualcosa dei For Carnation (ascoltare – prego – un pezzo come “I can’t get next to you” dall’ep “Monkey vs. Shark” del 2006), qualcosa degli Hood, qualcosa perfino dei Thin White Rope, il tutto affogato in una sorta di insolita, compassata alterità.

Succede poi che a quattordici anni dall’ultimo atto della storia Dee Kesler decida di resuscitare la sua creatura con l’apporto di vecchi compagni di corso, in primis il batterista Jason Gonzales: quando ben pochi avrebbero scommesso su un ritorno di fiamma, ecco uscire per Monotreme Records “Dad Jams”, undici nuovi brani per riprendere una saga mai realmente conclusa, lasciata in sospeso nel mezzo del nulla.

Stemperata ogni passata asperità, dissolte le nebbie psych in un chiarore inaspettato, evaporata ogni traccia di nevrosi, i Thee More Shallows di oggi suonano più come parenti prossimi dei Convertible o degli Steely Dan, ma soprattutto della premiata ditta Partridge&Moulding: lo spettro degli XTC aleggia incontrastato su una mistura indescrivibile di arie sì leggere, ma sempre e comunque caratterizzate da un mood difficilmente leggibile. A completare l’opera, testi intimi e personali intrisi di una visionarietà conturbante confondono e ammaliano mentre si lasciano sospingere da un’elettronica mite, impastata da linee armoniche impreviste (emblematico il ritornello di “Drinking tang”) ed arricchita da intarsi che sfiorano il Greenwich Village mentre lambiscono i Girls In Hawaii (“Ancient baby”).

Vestigia dei Thee More Shallows che furono se ne possono rinvenire a sprazzi in rari momenti appena più sostenuti e spigolosi (“Cold picture”, col chorus affidato ad un fuga prog delle tastiere), ma per quarantacinque inafferrabili minuti “Dad jams” rinuncia alle digressioni elettriche che caratterizzavano i suoi predecessori, ed anzichè presentarsi come ennesimo clone di una formula oramai stantia, muta pelle trasformandosi in uno spiazzante compendio di pop sbilenco. Perchè quello di “Dad jams” è null’altro che benedetto pop, in the end. Però storto. Fatto di canzoni da tre o quattro minuti che un loro appeal ambivalente lo conservano sempre, ma con melodie, ganci, aperture che stentano – appositamente, volutamente - a fare presa, rinunciando ad immediatezza e facile godibilità.

Così, “A mummy at the beach” sembra provenire direttamente dal catalogo dei primi Vampire Weekend, “Boogie woogie” scherza con Beatles e Canterbury prima di infilarsi in un motivetto che è antico synth-pop, “Copy body” accelera metronomica dalle parti degli Arcade Fire di “The suburbs”, “Little brave friends” – con l’ennesimo ritornello che curiosamente implode – disegna refrain minimalisti à la They Might Be Giants; ma c’è spazio anche per un art-rock che ricorda i Somnambulist tra pulsioni motorik, suggestioni tardo-floydiane e cori femminili (“Hocus pocus”), per una stralunata ballata dall’anima acustica chiusa in un crescendo improbabile (“A strobe light on a dumb dance floor”), per il commiato confessionale di una “Wizard wednesdays” che sa di Eels e di vecchi merletti.

Dove mr. Kesler voglia andare a parare, a cosa aspiri o possa ambire, in quali nuove forme intenda plasmare la sua musica, e in definitiva cosa possieda di veramente peculiare da distinguerlo dalla massa, Dio solo lo sa, ma forse non è rilevante. Dischi così rimangono unici: hanno padri incerti e figli invisibili, ed è il loro bello. (Manuel Maverna)