recensioni dischi
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CARLO PINCHETTI  "Una meravigliosa bugia"
   (2021 )

Ammantate da un’aura scarna e desueta, gentilmente ricoperte da una patina retrò affidata in prevalenza al determinante lavoro della chitarra acustica e a progressioni armoniche d’antan, rivestite di un’allure vagamente stralunata, le undici tracce che compongono “Una meravigliosa bugia”, esordio lungo in proprio del lombardo Carlo Pinchetti – trascorsi variegati ed importanti nel bel mondo dell’indie nostrano ed internazionale - su label Gasterecords e Moquette Records, sono emblematiche di un cantautorato paradossalmente antico e moderno: antico per quanto è solitario ed intimista, moderno perché avvolto tra le inafferrabili volute di testi – ottimi indifferentemente per età tardo-giovanile o pre-senile – sospinti da melodie essenziali verso gli angoli bui che ciascuno si porta dentro.

Non è un neo, ci mancherebbe: anzi, è un atout che eleva l’album di una spanna al di sopra dell’aurea mediocritas imperante. Disco desolato, mediamente intristito, sottilmente depresso, ben scritto, ancor meglio arrangiato – seppure con poco – e sontuosamente interpretato col piglio adatto ad attecchire al mood di cui sopra, scivola con la grazia intellettuale di Francesco Bianconi (“Strade vuote”, con prezioso violoncello di Elena Ghisleri) o col brio introverso di Vasco Brondi (“Fuori di me”) verso la sapiente declinazione del verbo alt-folk, linguaggio di elezione di queste esili canzoni schive.

Con mix e mastering di Pierluigi Ballarin e la partecipazione tra gli altri di Gigi Giancursi (chitarra nei Perturbazione fino al 2014, poi nel progetto Linda & The Greenman, indi brillante solista) e di Marco Brena (batterista degli interessantissimi Vanarin), oltre che di Linda Gandolfi in alcune parti vocali (“Recriminare”), si inseguono impalpabili come nuvole spinte dal vento brani confessionali dal messaggio universale (“Peggio di ieri”, quasi Sam Beam) e sporadiche incursioni in territori limitrofi (“Morta”, ballata pigra à la Cure), sempre preservando intatto quel sentore di introversione – del tutto autentica - che ne costituisce l’ossatura.

Rispettosa ma personale la cover di “Here comes a regular” dei Replacements (da “Tim”, 1985), che svecchia l’originale grazie ad un bel lavoro sui suoni e ad un arrangiamento centrato. (Manuel Maverna)