recensioni dischi
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ANDREOTTI  "1973"
   (2021 )

Degnissimo figlio del cantautorato - alternativo o sedicente tale - tanto in voga oggigiorno, comprendente i vari Calcutta, Coez, Gazzelle e naturalmente il desaparecido-mai-abbastanza-lodato Niccolò Contessa, per MiaCameretta Records Andreotti pubblica “1973”, lavoro che segue di un anno il debutto autoprodotto di “1972” e procede nel solco di un songwriting intimista fatto di bozzetti introversi portati a spasso da melodie morbide, ideali per assecondarne umore umbratile e verve pungente.

Forte di quel fascino da loser al quale poco importa di esserlo, misterioso e defilato, in fondo algido e discretamente nichilista come ben si conviene alla genìa di cui sopra, l’album volteggia come una ballerina sulle punte, ondeggiando lieve tra sonorità volutamente desuete che rimandano ad atmosfere d’antan. Un po’ il gioco dei Baustelle, ma senza l’immaginario scenografico, ché Andreotti ci tiene a restare nascosto in piena vista.

Il risultato sono otto canzoni in cui il name-dropping sta più nei titoli che nei testi, appena ricoperti di una patina radical-chic (si dice così, no?) ottima per la stagione. Nel generale pallore diafano del quadro generale, spiccano comunque arie accattivanti che paiono provenire da una vecchia radio a transistor o da un juke-box in spiaggia, canzoni morbide e un po’ pigre che raccontano di tutto e di niente caracollando indolenti mentre flirtano con arrangiamenti memori di passati fasti.

Sospinto da ritmi che indulgono ad un misto tra bossanova da soundtrack anni settanta e pop antico, “1973” imbastisce un melange conturbante che confonde nella sua insistita ricercatezza anacronistica, un po’ l’ultimissimo Umberto Palazzo (quello di “L’eden dei lunatici”), un po’ Battisti che ci sta bene comunque.

Il canto si mantiene spesso su un registro sussurrato (fa eccezione il piglio vagamente maniacale di “Neruda”, forse l’episodio migliore del lotto) tra il Giacomo Giunchedi targato Cadori e David Tetard; i synth tengono bordone pomposi e rigonfi, il basso pulsa ondivago, i coretti sullo sfondo stanno al gioco (“Batman”) mentre ballabili da terrazza-a-mare disegnano trame in fondo godibili (“Righeira”), anche se quell’ostinata aura retrò a lungo andare rischia forse di smussare anche i più brillanti picchi creativi.

E’ coerente, “1973”: un disco che per trentatre minuti asseconda l’idea di fondo su cui è strutturato, dalla title-track strumentale in apertura al gran finale visionario di “John Wayne”, con inciso che per due battute cita “Bandiera gialla” prima di virare altrove, immancabilmente al rallentatore. Merita più di un riascolto, ed è proprio regalandogli reiterata attenzione che svela poco a poco i suoi piccoli tesori occulti.

Ci vuole pazienza, ma può valerne la pena. (Manuel Maverna)