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COLLETTIVO CASUALE  "Aria"
   (2021 )

Creato quasi per caso durante la prima estate di pandemia, il Collettivo Casuale nasce dall’incontro di tre tizi non di primo pelo: Konrad Iarussi, Piero Filoni e Diana Rossi, artisti magari non così noti al grande pubblico, ma con trascorsi talmente ricchi e significativi da poter dare lezioni a molti.

Il trio improvvisato stipa tutto il cumulo di esperienza nelle undici tracce di “Aria”, spavaldo debutto su etichetta Music Force in cui ciascuno porta in dote il proprio oro, incenso e mirra senza prevaricare o mettere in ombra i sodali. Già presentato live durante l’estate del 2021, l’album propone episodi variegati e vitali: brilla per immediatezza, è spigliato e fluido, spazia con agilità e disinvoltura dal cantautorato al rock, dall’italiano all’inglese, dal confidenziale/intimo (“Going away”) al country disimpegnato (“Giuly”) senza mai smarrire il filo del discorso.

L’alternanza e la sovrapposizione maschile/femminile delle voci arricchiscono il lavoro di sfumature inattese, rivestendo di luce intensa queste canzoni semplici e rustiche, essenziali ma gradevoli, sulle quali la vocalità di Diana si staglia prepotente e squillante; ballate mediamente nostalgiche venate di malinconia (“Trema la pioggia”), ritmi al rallentatore ed echi sparsi di una bella scrittura d’antan disegnano il perimetro di un album che sa spingersi con gusto ed eleganza dai pregevoli intarsi della title-track (à la Massimo Bubola) fino alle atmosfere diafane di “....”, eterea bonus track in crescendo in bilico tra Mark Kozelek e Mac Demarco.

A loro agio con l’italiano, forse adatto più dell’inglese ad interpretare brani di matrice cantautorale, azzeccano qualche pezzone memorabile (“Fabrizio”, un piccolo capolavoro tout court) e molti guizzi che invogliano al riascolto, dal folk brillante di “Nessun reso previsto” alla compassata desolazione di “Strade di luce”, passando per le armonie più complesse de “L’io egemone” (strofa con la metrica del canto che si avvicina a Giovanni Lindo Ferretti, chorus sfavillante) o per la delicatezza confessionale di “Un po’ di sole ancora”, che chiude in punta di chitarra su un morbido tappeto di percussioni.

A farla da padrone sono l’urgenza, la necessità di esprimersi, la sincerità, il bisogno di scrivere, e poco importa se di tanto in tanto il disco sembra difettare di omogeneità: “Aria” dà forse l’impressione di poter rimanere un figlio unico, ma mi piace pensare che i tre ci abbiano buttato dentro tutto, come se non ci fosse un domani. E’ il qui-e-ora, e va benissimo così. (Manuel Maverna)