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JERUSALEM IN MY HEART  "Qalaq"
   (2021 )

Traslucido come un vetro opaco, triste come il passaggio di un carro funebre, dolente come un lamento ed impaurito come un fuggiasco, “Qalaq” segna il ritorno su etichetta Constellation del progetto Jerusalem In My Heart - moniker dietro al quale si cela l’artista di origini libanesi Radwan Ghazi Moumneh, di stanza in Canada - a tre anni da “Daqa’iq Tudaiq”, a otto dall’esordio di “Mo7it Al-Mo7it”.

Interamente composto ed assemblato durante la pandemia, si avvale della collaborazione di numerosi artisti appartenenti alla bolla dell’elettronica più colta ed elitaria, ciascuno dei quali ha fornito il proprio contributo alle singole tracce, in una complessa operazione di (ri)elaborazione dell’ossatura originaria dei brani stessi scritti da Radwan.

Lavoro che abbina ad una struggente delicatezza atmosfere plumbee e caliginose, “Qalaq” mette in fila quarantuno minuti di cupa introspezione filtrati dal prisma di una musica densa, pulsante, intensa, perfino agonizzante a tratti; diafano e inafferrabile, ipnotico e tremante, resta sospeso in un limbo tra folklore mediorientale e suggestioni avant, agitato da un alito tiepido che sa di incombenza, trattenuto ed inquieto, scosso da una soffocante sensazione di pericolo imminente.

Aspettando una deflagrazione continuamente rimandata, respinta da una forza invisibile, Radwan e soci realizzano un’escalation emozionale che attraversa confini, barriere, luoghi, politica e storia contemporanea, fondendo drone-music, tentazioni modulari, minimalismo e glitch, istanze che trovano spazio in una narrazione affidata a molte voci - soliste o mischiate come in un suk, maschili e femminili, recitative o melodiose.

Sotto l’egida di un simbolismo che riecheggia il rumore del mondo nelle sue più recondite sfaccettature si fanno strada il caos ubriacante dell’opener “Abyad Barraq”, con il drumming forsennato di Greg Fox (ex-Liturgy), l’ingannevole dolcezza di “Tanto” (magistrale Lucrecia Dalt), il battito ossessivo ed incalzante di “’Ana Lisan Wahad” (affidata alla bassista belga Farida Amadou ed al percussionista canadese Pierre-Guy Blanchard, già Pacha e Ensemble Thalassa), il languore avvolgente di “Qalaq 1” (impreziosita dalla voce calda e profonda dell’artista portoghese Diana Combo).

L’elenco dei collaboratori chiamati ad esaltare e a completare ogni episodio dell’album è sterminato, in un caleidoscopio di suoni e colori che rimandano agli aspetti multimediali e di visual art tipici dei live-act di Radwan (alla cui crew si è da poco aggiunta la filmmaker Erin Weisberger): da Roger Tellier-Craig (chitarrista dei GY!BE dei primi tre album e motore dei Fly Pan Am) alla poliedrica Moor Mother, artista di Philadelphia divisa tra musica, letteratura ed attivismo; dal dj libanese Rabih Beaini (aka Morphosis) alla vocalist ungherese Reka Csiszér, dal collettivo aperto avant Oiseaux-Tempete al nume tutelare Tim Hecker (che ricama una splendida “Qalaq 7”), fino alla prova corale di “Qalaq 9” che conclude l’album in una sorta di collage futuristico ordito dalla cantante Mayss, dal trombettista jazz Mazen Kerbaj, dal chitarrista free-impro Sharif Sehnaoui e dal multistrumentista Raed Yassin (metà del duo Praed).

Il connubio tra sperimentazione e tradizione – quest’ultima rivista e stravolta, ma nonostante tutto fedele ad un archetipo consolidato – partorisce tessiture tanto impalpabili quanto fascinose nella loro cristallina purezza ed elaborata raffinatezza, prodromo di un realismo problematico, disilluso e spaventato, ma profondamente intimo ed intriso di sentimento antico. (Manuel Maverna)