recensioni dischi
   torna all'elenco


COLONNELLI  "Iniezione meccanica continua"
   (2021 )

Impregnato di un viscerale odio erga omnes, irresistibilmente attratto da tematiche spinose e da una esplicita fascinazione per sangue, morte e varia oscurità, “Iniezione Meccanica Continua” vede il ritorno dei Colonnelli, sontuoso trio metal originario del grossetano, a tre anni da “Come Dio comanda” e a sei dal debutto lungo di “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”.

Inalterata la formula, immutata la foga, intatta la furia cieca: nove inediti e due valide cover di “Love will tear us apart” dei Joy Division e di “Elettricità” del Santo Niente (sul precedente si erano già ben cimentati in “Festa mesta” dei Marlene Kuntz) delineano il perimetro di un disco che mena fendenti alla cieca nel solco dei suoi predecessori, forte di un uso della lingua italiana sempre sorprendente per il genere.

L’approccio è ancora una volta violentissimo, una sequenza ininterrotta di mitragliate ad alzo zero sparate a velocità massima, sospinte dal drumming forsennato di Bernardo Grillo, dal basso tellurico di Andrea Deckard e dal chitarrismo nevrotico e frenetico di Leo Colonnelli, che si sgola inesauribile su una nuova infornata di brani assassini.

Rispetto agli esordi, le digressioni melodiche appaiono sempre più secondarie rispetto alla ritmica serrata ed alla ricerca di un effetto complessivo stordente e annichilente, una colata lavica che mira ad ottenebrare ogni accenno di forma-canzone, non concedendosi facilmente alla comune fruibilità: la tendenza è particolarmente evidente in pezzi come “Interceptor”, dove anche un chorus potenzialmente godibile viene prima deviato da una progressione di accordi non lineare, poi sventrato da un veemente assalto a doppio pedale, quindi convogliato verso un finale congesto saturato all’inverosimile.

Ma in fondo alla sua truce vividezza, la scrittura di Leo qualche timida apertura all’uditorio la lascia, sebbene mascherata da mille trucchi e travestimenti. Emblematico il trittico iniziale, una decina di minuti micidiali che mettono in fila tre-canzoni-tre da poter perfino cantare sotto la doccia, se soltanto non fossero devastate dalla tempesta che le sommerge: sfilano in un frastuono elettrizzante il quadretto sordido di “Primo sangue”, una “Federico io ti ammazzerò” grondante esplicito astio e bieco disprezzo, ma soprattutto il chorus quasi irresistibile di “Uomo morto nel mio letto”, che paradossalmente attrae mentre dispensa la sua mortifera visionarietà.

L’aspetto che nei Colonnelli non finisce mai di stupire è quanta credibilità riescano a conservare nonostante un immaginario popolato a dismisura di demoni e istinti omicidi, lontanissimo dal fumettone di maniera o dalla pacchiana evocazione di spettri plastificati ed incubi da baraccone: qua tutto suona terribilmente realistico, opprimente, sfibrante. E mai gratuitamente volgare, nonostante il milieu possa indurre in tentazione.

Musica da tregenda, soffocante e disturbata, come quella gettata in faccia nei due minuti e quarantanove secondi della title-track, lanciata a mille all’ora in un maestoso tripudio di bassi rimbombanti e cori apocalittici; o come quella introdotta dall’arpeggio - conciliante e subito distrutto – di “Furiosa”, digradante in un ritornello – conciliante e subito distrutto – memore dei Verdena che furono e di molto grunge dei tempi d’oro (un paio di figure della chitarra sembrano addirittura riecheggiare “Heart-shaped box”).

Poco importa se rispetto al recente passato il registro non cambia di una virgola, se il mood resta il medesimo, se i suoni rimangono compattamente fedeli a sé stessi e se i temi trattati indulgono alla consueta brutale efferatezza: tutto l’album è un’aggressione a testa bassa che non conosce sosta né requie, un feroce, innodico, incalzante martellamento che non stanca mai, nonostante ripeta un copione sostanzialmente invariato.

Sullo sfondo, un progressivo e costante allontanamento dalla parvenza di accessibilità che parevano poter regalare ai comuni ascoltatori di musica, coloro che normalmente stanno dall’altra parte, quella dove c’è ancora luce. (Manuel Maverna)