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OLDEN  "Cuore nero"
   (2021 )

Anvedi che a volte è vero quel che si dice: i recensori scrivono cavolate! Noi qui si cerca di analizzare, decifrare e ogni tanto dare consigli, ma non sempre ci s'azzecca; ed è il caso di Olden, che per fortuna non mi ha dato minimamente ascolto, quando raccontavo del suo disco del 2017, “Ci hanno fregato tutto” (http://www.musicmap.it/recdischi/ordinaperr.asp?id=5435). Dicevo che i brani più funzionanti erano quelli spiritosi, mentre quelli carichi di rabbia un po' meno, e consigliavo al... giovane Olden, di continuare su quella strada leggera. E invece nel 2020, il nostro pubblica “Prima che sia tardi”, un disco distopico, e adesso arriva “Cuore nero”, dove Olden si prende tantissimo sul serio. E fa bene.

L'uniformità di quest'album è notevole. Dalla prima all'ultima canzone, c'è un preciso sound rock, distorto ma cupo, mai esplosivo; semmai, implodente, rappresentativo di un movimento interiore. Spiccano tutte le linee di basso, plumbee come non mai; in sintesi, c'è una coerenza di base che rende omogeneo tutto il disco, e riesce a tenere legate le varie digressioni testuali. Ad esempio, le canzoni variano in argomenti, passando da “Kaddish”, ispirata all'omonimo poema di Allen Ginsberg, dedicato alla madre colta da una malattia mentale che la porta alla pazzia. Fino ad “Ari, la Donna Cigno”, che si tinge di leggenda, ma le parole affondano in dettagli dolorosi: “Cinque lame d'argento, cinque lune affilate appoggiate alle spalle, come punte di stelle, che di notte poi non mi fanno dormire; il mio sorriso rubato e trascinato via, ma quanto vale la tua fotografia”.

Ci sono anche temi ricorrenti, tra morte e rinascita, partendo da uno dei pezzi più forti, “Per diventare un fiore”, fino a “Rinascere altrove”, un 7/4 dagli accenti spostati sapientemente, in modo da non far percepire la disparità del tempo. Alcuni concetti tornano più volte, sviscerati in modi diversi: “Voglio solo scivolare, sparire giù in fondo, saltare senza guardare per diventare un fiore, a sognare un fiore”. E poi: “A volte morire è un dovere, se non puoi più respirare, e che brucino l'incendio e il dolore, per rinascere altrove”. E nel brano finale, “Più veloce di un saluto”, si legge: “Scivola giù in fondo il mio saluto, è un respiro trattenuto, e ho fatto quello che ho potuto”.

Torna più volte il concetto di scivolare, il respiro addirittura dopo “è inciampato”. C'è un baratro che si scruta, un abisso. Non per niente, in questo brano finale, nell'arrangiamento compare anche un ensemble di ottoni, che dà un'aria funebre al congedo dall'ascoltatore. Un po' come (vogliate scusare la mia ossessione per i Bluvertigo) il brano “Troppe emozioni”, che chiude “Metallo non metallo”, proprio con un ensemble di ottoni.

Passando dalla fine all'inizio, “Cuore nero”, la titletrack che apre l'LP, chiarisce da subito le oscure tematiche, con una suggestione visiva: “C'è un cuore nero che non vedo, dentro una scatola di vetro, che ha chiuso via con sé il divieto di credere a questa bugia, che sarebbe troppo facile accontentarsi di non annegare”. Direi che c'è poco da fare l'esegesi, qui. Altre perle tra le parole, si trovano nelle preoccupazioni di “Un figlio solo”: “Trova una casa dove nasconderti, per tutto il tempo disattento penserai, ci è mancato poco che non succedesse mai (…) io ho solo un figlio, un figlio solo”. O nella resa dei conti in “Oceani”: “Spiegami quand'è che ho smesso di commuoverti, dove hai nascosto i nostri applausi?”.

Ma quella rabbia di tanti anni fa, dov'è? In un cantuccio dedicato, nel pezzo “Le nostre vigliacche parole mancanti”. Olden passa il testimone dell'acidità, all'ospite del disco, indiscusso re del favellare acido: Pierpaolo Capovilla, che verso la fine prorompe in un recitato dei suoi, col suo sarcasmo malevolo. Il rock qui si trascina lento, come uno zombie rock. “Cuore nero” è davvero un grande album, punto di maturazione artistica di Olden, e oserei dire, anche manifesto adeguato dello Zeitgeist. (Gilberto Ongaro)