recensioni dischi
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MULE JENNY  "All these songs of love and death"
   (2021 )

Mai fermarsi alle apparenze, mai comprare un libro partendo dalla copertina, anche se in questo caso non è priva di magnetismo.

1779. Dieci anni prima della rivoluzione francese Samuel Crompton inventa la spinning mule, macchina automatica per filare che porta trenta fusi, nata dall'ibridazione tre la spinning jenny e la water frame. Nasce così la Mule Jenny.

Un po' di tempo dopo - un battito di ciglia nel computo dell'universo - ossia nel 2021 esce il primo disco del gruppo omonimo, "All These Songs Of Love And Death", che con l'ibrido in chiave sperimentale ci va a nozze e non a buon mercato. Il voto meritato è un sei con, in prospettiva, speranze per premesse di miglioramento, diciamolo subito.

Vengono dalla Francia, e partono alla conquista del mondo musicale con le nove canzoni di un album programmatico che gioca alla dissonanza, sui suoni inusuali, sullo scarto di lato, per dar voce al perturbante che alberga tra amore e morte, ossia alla vita come la concepiamo nel XXI secolo consumistico e occidentalizzato.

Echi? A bizzeffe. Altrimenti che ibrido sarebbe? Floyd, Genesis, un po' di Rem, una caterva di Radiohead, ma non basta ibridare le chitarre di Greenwood e soci o i coretti alla Jefferson Airplane per tirare fuori qualcosa di nuovo e di buono e non fermarsi a un solo suono, intendimento quandomai condivisibile nella melma sonora in cui ci dibattiamo. Ci sono sferzate progressive, per carità, e un po' di sana follia e fobia psichedelica ed energia guizzante per uscire dagli steccati retorici di comodo del già sentito e già suonato, ma, per carità, non siamo né alla corte dei re cremisi né dalle parti di Porcupine Tree e Dream Theater, si vorrebbe un po' più di Frank Zappa e di Kula Shaker, e un suono meno algido e sintetico e più sporco, e meno supponenza.

Alla fine il risultato è in più di una parte con effetto disturbante e indigesto, inversamente proporzionale allo sforzo produttivo, e tendente alla produzione di sbadigli. Mai come in questo caso il secondo disco sarà la prova del nove, perché il primo non è affatto il disco killer che gli autori vorrebbero e spererebbero probabilmente, non spicca il salto nonostante gli interessanti tappeti sonori, come in "Sign your name on the dotted line" e nella title track.

Forse, ma dico forse, qui occorre lavorare con maggiore insistenza sugli arrangiamenti (già che ci siamo osiamo di più, no?), oppure tornare a cantare in francese, anche perché, a parte qualche rara e meritoria eccezione, la terra d'oltralpe non ha brillato sul fronte indie e sul fronte rock accontentandosi di divi alla Johnny Halliday (tra gli scopritori di Jimi Hendrix e accanito fumatore di Gitanes), morto lo stesso giorno dello scrittore Jean d'Ormesson nel 2017 con una fiumana di gente ai funerali.

Forse, per assomigliare di più agli inarrivabili Steely Dan, ci vorrebbe un apparato di fiati come Dio comanda o una chitarra come quella di Walter Becker, forse ai Mule manca un wall of sound alla Phil Spector o un suono come quello che caratterizzò gli Abba nei Polar Music Studios. Forse. Sognare non costa niente, no? (Lorenzo Morandotti)