recensioni dischi
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LEBENSWELT  "Unspoken words"
   (2022 )

Introdotto dal languido neoclassicismo di “A short history of decay. Part 1”, strumentale che sa di pioggia e di Debussy, “Unspoken words” – su label Under My Bed Recordings/OuZeL Recordings - è il nuovo album pubblicato da Giampaolo Loffredo sotto la sigla Lebenswelt, progetto varato nel 2003 e giunto al sesto capitolo di una vicenda artistica da quasi vent’anni vessillifera di un sadcore sui generis, elaborato e pregevole nella sua incrollabile coerenza stilistica, per l’occasione allargato ad una nutrita schiera di preziosi collaboratori italiani e non (cito Pall Jenkins e Richard Vincent Adams a mero titolo d’esempio).

Cinquantaquattro minuti di avvolgente intensità si concedono a trame diafane e svenevoli che richiamano sia le atmosfere intime e depresse dei This Mortal Coil sia – mutatis mutandis - la morbida mestizia dei Beach House, di rado indulgendo ad episodi più incentrati sulle dinamiche (“That day”, quasi i Sophia), fondendo altresì in un milieu straniante e ipnotico elementi estrapolati da differenti contesti.

Brani suggestivi ed evocativi rimandano a Mogwai, Nero Kane, Carta, Blessed Child Opera tra inflessioni post-rock - affidate alla deflagrazione calibrata che scuote “Keep on dancing” al culmine di un crescendo elettrico disturbante - ed una “Somehow” che arranca catatonica per quasi sette minuti, memore di certe dilatazioni circolari targate Red House Painters (sullo stesso registro si muovono “Gone” con la sua impalpabile filigrana e la title-track, manifesto di melanconia in minore a passo da Low).

Ma altrove c’è spazio per aperture prossime all’ambient-psych che rese immortali gli ultimi Talk Talk e per vagiti incupiti inzuppati in un mood perennemente afflitto, assecondato da cadenze moribonde che deviano il dream-pop (“Shade of the water”) verso uno spleen lamentoso, eppure foriero di beatitudine. A prevalere è uno slowcore profondamente addolorato, suggellato da “A short history of decay. Part 2”, altri sette minuti che calano il sipario su un lavoro la cui sincera desolazione è pari soltanto alla bellezza oscura che cela in penombra. (Manuel Maverna)