recensioni dischi
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MARIO PIGOZZO FAVERO  "Mi commuovo, se vuoi"
   (2022 )

Corposo e denso come un vino di pregio, “Mi commuovo, se vuoi”, su etichetta Dischi Soviet Studio, vede il debutto solista di Mario Pigozzo Favero, voce e chitarra dei Valentina Dorme fin dagli esordi autoprodotti della band trevigiana, divenuta negli anni uno dei segreti meglio custoditi dell’indie nostrano grazie ad una serie di album memorabili pubblicati tra il 2002 ed il 2015.

Tredici tracce inevitabilmente figlie di una scrittura tanto riconoscibile quanto fedele all’abituale miscela di morbidezze ed asperità, soprattutto testuali, segnano il perimetro di un lavoro che oscilla spavaldo tra una sapiente autorialità tout court ed un piglio che ben volentieri indulge a tematiche talvolta spinose.

Molto più incisivo quando si fa sfrontato e dispettoso (“Le preghiere della sera”, “Uno dei tanti Orfei”), accomodante nei rari episodi in cui staziona invece dalle parti di un cantautorato allineato (“L’inferno siamo noi”, “E la nave va”), l’album veleggia con brillante scioltezza tra musicalità conciliante e versi ficcanti, mentre a piene mani dispensa creatività, mena fendenti, trascina nel suo gioco vagamente straniante.

L’accoppiata di apertura detta immediatamente modi e tempi: lo humour sardonico e noir di “Pornostar” e il diluvio di parole & idee di una strabordante “Ai defilati” sono due colpi magistrali che svettano imperiosi sul mare magnum di un disco sempre e comunque intrigante. Merito di brani concisi la cui durata media – intorno ai tre minuti – mantiene desto l’interesse senza mai incappare in passi falsi, lungaggini indesiderate, episodi inessenziali. Quelle narrate in un linguaggio disincantato e viscerale sono storie di varia umanità che coinvolgono, affabulano, solleticano: dalla disarmante schiettezza di “Avvoltoi” all’amarezza di una “El sbrego” esaltata dall’uso del dialetto, dal sordido bozzetto di “Franchino ‘57” al realismo impietoso di “Latakia” fino al toccante epitaffio di “Un tale singhiozza”, il tono rimane beffardo e sfacciato, segnato da una profondità di contenuti mirabilmente assecondata da un crooning frontale e diretto.

Lavoro ricco fin quasi all’opulenza, chiude con un’altra rimarchevole doppietta di palpitante intimismo in purezza: se avessi ascoltato prima il testo de “Il metro del sarto” ne avrei ben volentieri trascritto qualche verso sul biglietto di auguri a mia moglie per San Valentino, perchè sembra che quei centoventiquattro secondi parlino proprio di noi. E lo stesso avrei fatto dedicando a mia figlia qualche sprazzo de “L’orco di Sigurtà”, o forse no perchè mi ha strappato una lacrimuccia e magari avrei finito per rattristare anche lei.

Riciclerò entrambi alla prima occasione utile, promesso: insieme a chissà quanti altri spunti che soltanto ascolti ripetuti potranno riportare in superficie, come piccoli tesori in attesa sul fondo del mare. (Manuel Maverna)