recensioni dischi
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ALE HOP  "Why is it they say a city like any city?"
   (2022 )

La realtà virtuale avrebbe dovuto avvicinarci tutti, e se leggete qui in effetti è ancora così. Potete scoprire musiche da tutto il mondo, su questa nostra Mappa Musicale. Ma sappiamo bene che, con l'avvento dei social network, il sogno del web libero che unifica tutti è andato a farsi benedire. Siamo stati standardizzati, dando ad ognuno il suo orticello da coltivare e poi esibire, e non viaggiamo più neanche virtualmente, dunque siamo tornati lontani. Ma per fortuna c'è Ale Hop.

L'artista peruviana, di stanza a Berlino, ci propone un vero e proprio viaggio sonoro che, lungi dall'essere un lavoro etnomusicale, si rivela un catalizzatore psichedelico di stimoli distanti. Il suo nuovo lavoro “Why is it they say a city like any city?”, uscito per la Karlrecords, è denso di suggestioni miste e disorientanti, che permettono di percepire di nuovo l'ampiezza del nostro malandato pianeta, con approccio drone music, realizzato con altre 14 collaboratrici e collaboratori.

“The mountain that eats men” sono 8 minuti in compagnia di un suono elettronico lentamente cangiante nel tempo, affiancato da una voce straniante che racconta una strana visione. “Mayu Islapi” è realizzata con violoncelli statici e ipnotici, anch'essi poi raggiunti da voci latine. “Latitude 0” mostra sonorità più percussive, e l'elemento vocale anche qui assume una funzione surreale. In “They thought of themselves”, tornano i violoncelli di prima, mescolandosi a drone elettronica e a un clima di giungla animale.

Un timbro nasale... Oh, cos'ho scritto, avete mai pensato di timbrare col naso, premendolo sulla spugnetta? Intendevo: un suono dal timbro nasale, cioè le cui frequenze danno un aspetto intrinseco “chiuso” al suono (per questo si dice nasale), ci accompagna in “Chiapas y phinaya”. Questo è il suono principale, ma attorno ad esso ci colpiscono brevi scariche elettriche tridimensionali, un loop di un suono modificato, che assomiglia allo stesso momento a un clavicembalo ed ad un koto... beh insomma, è davvero un pezzo inafferrabile, non ce la faccio a spiegarvelo. Il più intrigante del disco

E alla fine, una voce in reverse ci accompagna sulla techno di “Once upon a time”, l'ultima tappa del viaggio. La voce poi si raddrizza, ma rilascia parecchia eco. Qualche bass drop qua e là, e un clima di fantascienza, ci lasciano in una sorta di non luogo, che chiude l'album con una deflagrazione lontana. C'è poco altro da scrivere, e molto da ascoltare. Pensare che quest'album sia stato presentato con un'installazione audiovisiva, fa invidiare chi è stato presente. In due parole, potremmo definirla musica geografica. (Gilberto Ongaro)