recensioni dischi
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CARON DIMONIO  "Porno post mortem"
   (2022 )

Tetro e lascivo, intimamente corrotto sebbene celato sotto le mentite spoglie di un’elettronica accondiscendente abbracciata a strutture tardo-wave, “Porno post mortem” – su label Atmosphere Records - segna il ritorno dei Caron Dimonio ad oltre quattro anni da “Religio”.

Divenuti trio con l’ingresso in formazione di Lorenzo Brogi accanto ai fondatori Giuseppe Lo Bue e Filippo Scalzo, raffinano sia il sound sia la scrittura, ora più riflessiva e meditativa, ma paradossalmente ancor più incombente, sinistra, fosca.

Quasi definitivamente affrancatosi dalle asperità degli esordi, il nuovo capitolo vede sì il consueto prevalere di bassi profondi e tematiche che flirtano col male di vivere e col suo confine estremo, ma si ammanta di un’aura caliginosa stesa come un sudario su dieci episodi agonizzanti e mortiferi.

Definito dall’inconfondibile lavoro sui suoni compiuto come sempre al Lotostudio di Gianluca Lo Presti (Nevica, Nevica Noise, Nevica Su Quattropuntozero), l’album insiste su un registro plumbeo spalancando porte su abissi vari e disegnando scenari catacombali ben delineati dal martellamento ossessivo delle quattro corde; entro il perimetro tracciato da un’estetica decadente e da sonorità cupe e tenebrose si agitano testi evocativi che offrono immagini senza raccontare, poche frasi ripetute a definire il mood generale in una subdola concessione alla libera interpretazione, un ubriacante gioco di specchi che confonde e attrae nella sua malìa infida.

Scosso da pulsioni inquiete che costellano una strada verso il nulla, l’album infila dieci perle nere come pece: gli echi Cure di “Arthur Rimbaud”, le atmosfere à la Depeche Mode periodo “Black Celebration” della title-track, le memorie di Battiato che permeano “Quinta del sordo”, il passo indolente di “Cosmo”, pigra e catatonica su una cadenza accarezzata dalla chitarra flangerata e dalla modulazione del feedback in sottofondo. Ma anche le reminiscenze industriali à la Coil di “Preghiera dell’ingordo” o la fascinosa, sfuggente chiusura in downtempo di “Muto bianco”, soffocata tra interferenze e disturbi in una coda enigmatica, acme di un percorso sofferto, afflitto, dolente. (Manuel Maverna)