recensioni dischi
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MAX GIGLIO  "Cities and lovers"
   (2022 )

Cities and Lovers, il disco d’esordio di Max Giglio, pubblicato dalla Emme Record Label, è un gustoso concentrato di luoghi, atmosfere e sensazioni sia vissute sia immaginate, un viaggio fisico e spirituale insieme che scava nella nostra interiorità come nelle esperienze che ogni giorno viviamo esternamente. Prestigiose anche le collaborazioni: Fabio Gorlier al pianoforte, Cesare Mecca alla tromba, Simone Arlorio al clarinetto, Veronica Perego al contrabbasso e Francesco Brancato alla batteria.

Cities and Lovers è uno splendido affresco che rappresenta cosa è l’arte per il suo autore ed esecutore. Essa, per Giglio, è un mezzo attraverso il quale indagare noi stessi, la nostra esistenza, il nostro rapporto con l’esterno e con quello che abbiamo dentro, che è sempre frutto delle esperienze di vita che ci capitano e che ci siamo costruiti. Ogni brano è un microcosmo che si equilibra perfettamente con gli altri; tutti insieme danno vita a una galassia a sé stante che preme forte sull’acceleratore di un jazz sfumato e caldo, da Belle Époque, che sfocia spesso in sonorità da USA Anni Cinquanta, quei club dalle luci soffuse, tra sigari accesi, abiti eleganti e atmosfere stranianti, tipici del secondo dopoguerra.

Le “voci” – in tutti i sensi – che attraversano Cities and Lovers sono variegate e profonde: c’è il crooning di “Autumn in Torino” che avvolge l’ascoltatore come un cumulo di nuvole che chiude il cielo e che permette di spiarlo solo attraverso alcuni piccoli spiragli, con la tromba e il piano che guidano la voce verso angoli di azzurro che a malapena si intravvedono. Infernale e seducente è “Sogno Carioca”, momento sciolto e abbacinante, dove piano e voce ingaggiano quasi un duello. Altrettanto su di giri è la graffiante “The Dry Cleaner from Des Moines”, gemma di appena tre minuti che quasi soffoca chi ascolta: la batteria, la tromba, il piano danno il ritmo, la voce ci si mescola e si tuffa nella maniera più libera possibile.

Max Giglio, insomma, non lesina su nulla: è un esordio non certo in sordina, il suo, e affronta di petto tante questioni aperte in merito a cosa sia il jazz nostrano, e non solo, in questi anni. La sua risposta è chiara: esso deve radicarsi sempre in una conoscenza storica e teorica del genere enorme e convincente, solida e sincera, appassionata e ininterrotta. Per Giglio e i suoi colleghi la vera pietra d’inciampo, lo σκάνδαλον del greco antico, a dispetto della quale sente di dover fermarsi e con la quale vuole dialogare, è quella dei meravigliosi songbooks americani, un mondo immenso e onirico con il quale molti dei più grandi, da Bob Dylan a Tom Waits, hanno deciso di entrare in contatto più volte nel corso della loro carriera. Nel confronto reverente (e irriverente) e proficuo con esso Giglio innesta altre fonti d’ispirazione centrali nella sua formazione, come il cantautorato della scuola genovese e persino sonorità sudamericane. La sua proposta è allettante e onesta. Il disco è un’avventura che val la pena di intraprendere. (Samuele Conficoni)