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HUGO RACE FATALISTS  "Once upon a time in Italy"
   (2022 )

Che sia inutile recensire un disco di Hugo Race è un assioma, come altrettanto inessenziale è parlare di lui, della sua storia passata e presente, delle sue frequentazioni, di ciò che ha regalato e continua a regalare ogni volta che imbraccia la chitarra e canta qualcosa, qualsiasi cosa canti.

Per definizione, Hugo Race non può sbagliare un disco, come i National, come Kanye West, come i Low.

Non hanno importanza i paragoni tra Hugo Race e gli altri, nè tra i suoi album precedenti – da solista o no, poco conta - e quest’ultima fatica: ecco, sappiate che è uscito un suo nuovo lavoro, che porta il titolo di “Once upon a time in Italy”, sotto la sigla Hugo Race Fatalists, moniker che riunisce i fedeli Diego Sapignoli, Giovanni Ferrario e Francesco Giampaoli. Partecipano anche la cantante australiana Georgia Knight ed il violinista TJ Howden (già con J.P. Shilo), per la cronaca.

Sappiate anche che l’album – pubblicato su Santeria/Audioglobe - è stato registrato al Lido di Dante, vicino a Ravenna, e che comprende materiale composto durante gli anni della pandemia. Nella versione per il mercato europeo contiene undici tracce – una è la cover di “Hurdy Gurdy Man” di Donovan – ed un ep con quattro dei brani riproposti in lingua italiana.

Per il resto, tutto come al solito: la voce cavernosa e profonda, le immancabili tonalità minori, l’irrinunciabile atmosfera mesta ed afflitta, la consueta strabordante intensità, l’abituale interpretazione da consumato crooner, il passo lento, l’aria che sa di fumo e alcool.

Business as usual: poca luce e molte ombre, in un perenne crepuscolo che fa bene all’anima, a patto di avere nell’anima la giusta dose di buio per godersi un altro show così.

Poi, si colga pure quello che si vuole cogliere: vi pare di sentire i Morphine nello charme notturno di “Confessions” o Chris Rea nell’esitazione laid-back di “Atomized”? Va bene. Avete colto vestigia di Cohen nella morbidezza esasperata di “Hooked” o dei Dire Straits nel mid-tempo in quattro quarti dritti dritti di “Beat my drum”? Perfetto. Trovate irresistibile e perfino sexy il bluesaccio truccato di “Mining the moon”, inquietanti – ma suadenti, oh sì! - le movenze sinistre di “San Leone”, semplicemente indescrivibile lo slow virato western della title-track in chiusura, così morbido che meriterebbe un abbraccio? Ottimo.

Insomma, fate come volete: il suggerimento è di ascoltare e basta, lasciandosi ghermire, sopraffare, inghiottire, addirittura fagocitare. Questo è Hugo Race, altro non occorre aggiungere.

Ah, sappiate che il disco è una perla: anche questo è un assioma, non c’è da discutere. (Manuel Maverna)