recensioni dischi
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THE BLIZZARD SOW  "The born again is dead"
   (2022 )

Nessun calcolo ha nessun senso dentro questa favola bella che oggi m’illude e che ieri pure m’illuse, se è vero che “Foggy songs for the first periods” – pubblicato non più tardi di otto mesi fa – giunse ad un centimetro dal fregiarsi del titolo di disco-dell’-anno su queste stesse pagine.

Da un certo punto di vista che dirvi non so, questo disco è meravigliosamente senza senso: non ha senso il vano tentativo di accostarlo a qualcosa, non ha senso cercarvi un’unità di intenti, di stile, di ispirazione, non ha senso sviscerarlo ipotizzando similitudini o azzardando paragoni.

La strana coppia formata da Denis Frajerman e Guillaume Boppe insieme ai loro alter ego più o meno immaginari e ad una nutrita schiera di esimi collaboratori è già di ritorno con i ventisette minuti di “The born again is dead”, di nuovo prodotto da Yann Caravan su etichetta E-Klageto, lavoro ancora una volta indescrivibile, del quale nemmeno si può dire che riparta da dove il suo predecessore (non) finiva.

Percorsi di musica sghemba vagano sulla lunga e serpeggiante strada di un impenetrabile cabaret espressionista, costellato di trucchi, arcani e magheggi, un pastiche multiforme, multicolore, multiculturale, multietnico al quale non si può dare un nome nè sembianze riconoscibili.

La peculiarità di questa forma d’arte dai labili confini è la sua innata capacità di rifuggire ogni classificazione, e di goderne pure: si divincola, sguscia, striscia, sfugge. Muta pelle, si insinua ambigua, cambia traiettorie, confonde. Ammalia, affabula, coinvolge, respinge. E tutto ciò con la più trasparente naturalezza, una nonchalance che mai sa di forzatura nè di spocchiosa alterità o elitaria ambizione.

Sospinte da un crooning ondivago che sussurra, palpita o declama a seconda dell’estro del momento, vestigia sparse di rock-che-non-fu innervano la pigrizia di brani ciondolanti (“Homeless addict”), sospesi tra suggestioni di teatro mittleuropeo (“Death is the duet”), echi barrettiani (“John Beausejour”), numeri avant (“Cook the kerosene”). Dal valzer sbilenco di “Nowhere fugees” all’improbabile bossanova di “Echansson d’amour”, dallo spleen melodrammatico di “Our born-again cemetery” alla chiusura vagamente psych di “A lonesome traveller is the devil” passando per recitativi incombenti, disturbi vari, rumori di fondo, strutture free form, va in scena un delirio controllato con la sua bizzarra andatura caracollante. Lucida follia, fantasiosa ma misurata, allucinata ma gentile, compendio straniante di intuizioni visionarie convogliate in una effimera, insondabile bellezza. (Manuel Maverna)