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NASTYJOE  "Deep side of happiness"
   (2022 )

Che il lupo perde il pelo eccetera è verissimo, come pure che torna la libidine, prima o poi.

Avevi delle passioni da ragazzo, cent’anni fa, e ancora non ti lasciano nè mai lo faranno: bene così, danno conforto e sempre ne daranno.

Perciò, quando senti che un disco inizia in un certo modo ti si drizzano le antenne, come a captare segnali, onde radio, qualcosa nell’aria che riporta là, dove tutto ha avuto inizio. Nel presente caso, la merce che confonde e rapisce è poi sempre la stessa, e lodata sia: gente che pesta pesante, chitarre cattive, pezzi immancabilmente in minore, rumore e melodia.

Rumore e melodia: ecco, forse è tutto qui. Storia vecchissima: lo facevano i Television, gli Hüsker Dü, i Nirvana e un milione di altri.

Compresi i Nastyjoe, al secolo Robin Rauner, Bastien Blanc, Nicolas Acquaviva e François Garcia, quattro tizi francesi originari di Bordeaux con all’attivo due ep incluso questo “Deep side of happiness”, pubblicato per À Tant Réver du Roi con le migliori intenzioni e tanta rabbia compressa pronta a deflagrare.

E’ musica buia, avvolta in spire che la stringono in una morsa soffocante. Intanto, giocherella incurante con quarant’anni di post-punk, annessi e connessi, ma lo fa con il candore naïf di un bimbo che maneggia un revolver.

Già il titolo è una presa in giro, vista la folla di demoni che si celano tra i ventidue minuti di sei tracce aggressive e furiose quanto basta a marcare il territorio. Intorno, il solito habitat fatto di scatti imperiosi, canto pigramente disallineato e tonnellate di brit-qualcosa mandate a memoria, sedimentate, rimasticate e sputate in forme ben note.

E quindi?

Niente: è una delizia smarrirsi in questo sottobosco popolato di figure ben poco rassicuranti e inquietudine diffusa; una goduria quel basso piantato dritto nello stomaco in “A tooth for an eye” a ricordare Eldritch & soci; un’autentica raffinatezza l’armonia ciondolante della title-track con corollario di elettricità disturbata in coda; un prodigio la violenza parossistica che scuote l’opener “Resign” a base di riff, fuck e poco altro; una prelibatezza lo strumentale etereo “Discorde part I”, intro alla cadenza incupita, sofferente e malaticcia di “Discorde part II”, vicina ai Fontaines D.C. e preludio ai cinque minuti della conclusiva “Friend”. La quale - nemmeno a dirlo - si infila nell’ennesimo cunicolo dalle parti della buonanima di Cobain, tuffandosi – perduta come un cucciolo nel mare in tempesta - nella stralunata vaghezza della nenia che la inghiotte.

Tutto già sentito: questione di passioni da ragazzo, cose da cent’anni fa, non fateci caso.

Fine, non aspettatevi altro. (Manuel Maverna)