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TRA GLI ALTRI  "Vorrei tanto non dover guardare"
   (2022 )

Perennemente in bilico tra grazia e malinconia, introspezione e fosca poesia, “Vorrei tanto non dover guardare” segna il debutto lungo per We Work Records di Marco Mattioli sotto il moniker Tra Gli Altri, nuovo progetto che va ad aggiungersi alle precedenti esperienze come chitarrista in varie band (Diluvio l’ultima in ordine di tempo, interessante ibridazione strumentale di post-rock e pop sbilenco non lontano da alcune cose dei Verdena o dei più recenti Northway) muovendo in direzione di un cantautorato affranto, cupo, schivo.

Elogio della lentezza, affine per sonorità e concezione al self-titled di cinque tracce pubblicato lo scorso anno, l’album acquisisce quella maturità già ben evidente all’esordio, ora declinata con nuova profondità, ben radicata in atmosfere scarne ed essenziali; intimo e confidenziale, raccoglie otto brani eseguiti alla chitarra classica con il sostegno mai invadente dei compagni di viaggio Marco Degli Esposti (La Notte delle Streghe/Cranchi), Mirco Chiavelli (Goodbye Horses) e Diego Mantovani (Nicker Hill Orchestra), ensemble che con misurata discrezione supporta quaranta minuti ingannevolmente morbidi, affatto accondiscendenti.

Testi grondanti afflizione si offrono all’interpretazione sofferta di un crooning a mezza voce, veicolati da una musica esangue e sfuggente sempre saldamente in mano alla sei corde; richiama – è vero – l’ultimo Niccolò Fabi, ma riecheggia fortemente una riedizione nostrana di Mark Kozelek, poco importa se in versione Red House Painters o Sun Kil Moon. Delizioso il lavoro di chitarra elettrica che punteggia lo sfondo di “Enrosadira” - impreziosita senza sfregio mentre dipana sorniona la sua celata complessità – secondo uno schema ripreso sia ne “L’ultima volta” che in “Villanoia”; a suo modo ipnotico il susseguirsi ininterrotto di arpeggi sinuosi e ritornelli che sembrano non esplodere mai; ineludibile la sensazione di dilagante mestizia che troneggia in penombra, nascosta in piena vista.

E’ un disco intenso che richiede impegno, giusta disposizione d’animo, persino fatica; aumenta di rado i giri, aggiunge piccole divagazioni o lievi deviazioni dalla strada maestra (i sei minuti più strutturati di “Tornare a casa”, le suggestioni alt-country di “Un pugno di parole”, la pigra ballata di “Casa dentro casa” in chiusura), prediligendo sempre e comunque toni dimessi, insistendo sul medesimo registro riflessivo e indolente, crogiolandosi in una desolazione introversa. E’ proprio questo incessante fluire di melodie tenere e meste parole a creare una vivida impressione di continuità, una compattezza sottotono e sottotraccia che conferisce all’insieme un’aura di costernato abbandono.

Il risultato è ciò che non ti aspetti: è qualcosa di bello che non chiede di essere ammirato, ma di essere capito, guardando oltre la superficie delle cose. (Manuel Maverna)