recensioni dischi
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RED HOT CHILI PEPPERS  "The Red Hot Chili Peppers"
   (1984 )

Il disco d’esordio dei Red Hot Chili Peppers è solo un surrogato del furore live espresso dal gruppo prima di ottenere un contratto discografico. I motivi principali vanno ricercati nel cambio di chitarrista, Jack Sherman invece che Hillel Slovak, e di batterista. La formula crossover è chiara, ma probabilmente ancora troppo poco assimilata dai nuovi membri. Ciò che ne viene fuori è un lavoro espressivo ma troppo poco attraente. Mancano davvero dei colpi di genio. Al contrario, la sezione ritmica dà una spinta non indifferente, che forse manca nei ritornelli, vedi “Get Up and Jump”, e nelle strutture delle canzoni che si accontentano di una soluzione di forma pressoché invariata, si tende a ripetere lo stesso schema per tutte le canzoni. Come si può vedere, a questo disco non mancano i difetti, tuttavia il gruppo ha potenzialità ancora nascoste e qui si possono chiaramente intravedere. “Baby Appeal” ha tutta la carica demenziale dei dischi futuri, quel sapore di adolescenza, di asfalto che scorre sotto i nostri piedi mentre camminiamo in cerca di chissà cosa. “Buckle Down” affascina con un riff coinvolgente ed un funk senza fronzoli. “Green Heaven” è uno dei migliori monologhi rap di Kiedis. “Out In L.A.”, prima canzone del gruppo, è una frenetica danza metropolitana, isterica nei ritmi come sgraziata e pura nel funk. In questo senso “Police Helicopter” risulta ottima, una potente scarica di energia che pervade il gruppo e l’ascoltatore, preda di ritmi a dir poco inquieti. “Mommy Where’s Daddy” e “Why Don't You Love Me” invece lasciano abbastanza indifferenti, non c’è nulla che incentivi un nuovo ascolto. “Grand Pappy du Plenty” è difficile da inserire nel contesto, se non come un esperimento controverso. Ma il vero capolavoro è “True Men Don’t Kill Coyotes”, una cavalcata del deserto che trasmette un’inquietudine difficile da ritrovare in un qualsiasi disco dei Red Hot. Un'esplosione anfetaminica di terrore punk, espresso anche dal testo ricco di immagini crude. L’eco di questo zombie si protrarrà lungo i primi brani del disco, dando un effetto straniante. È la tipica canzone che vale il disco. Complessivamente il lavoro è rispettabile, manca certo la genialità ed irruenza tipica del gruppo, ma la maggior parte delle canzoni gode di una schiettezza non comune e di un ritmo senza pari. Questo disco, di qualità più che accettabile, risulta a tratti una semplice e poco carismatica esposizione dello stile del gruppo; manca il divertimento, manca quel sussulto d’incredulità che il gruppo saprà dare ai suoi fan nei lavori futuri con il ritorno di Hillel Slovak. (Fabio Busi)