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KARIN ANN  "Side effects of being human"
   (2022 )

Questo disco non è forse eccezionale, ma nemmeno pretende di esserlo: resta umile, ecco.

Peraltro, assomiglia a un sacco di cose e non ambisce certo all’unicità o ad inventare chissà che: fa il suo e ci riesce in modo sorprendente, a volta addirittura stupisce, perché il pop è una cosa seria e bisogna saperlo maneggiare, altrimenti diventa paccottiglia.

Otto pezzi, ventiquattro minuti, un prodigio di concisione for the masses: questo è “Side effects of being human”, secondo ep su etichetta 3AM/Artist First per la ventenne artista slovacca Karin Ann, con la supervisione di Tomi Popovic e l’ausilio di una gran bella faccia tosta unita ad una personalità strabordante.

E – soprattutto – con il supporto di canzoni che, pure nella loro essenzialità, sono semplicemente centrate, godibili, immediate. Ben prodotto, arrangiato con misura, rifinito da un sound curatissimo e provvidamente contemporaneo, l’album infila una serie impressionante di ritornelloni da mandare a memoria e cantare sotto la doccia col bagnoschiuma come microfono.

Sparsa un po’ ovunque come il prezzemolo c’è un’eco ben evidente di Billie Eilish che – lungi dall’infastidire - rende Karin adorabile anche quando affronta temi spinosi celati dalle ingannevoli sembianze di canzonette leggere e frivole che leggere e frivole non sono mai.

Degli otto brani sopra citati, almeno la metà sono a dir poco irresistibili; gli altri si lasciano ascoltare come l’acqua fresca si lascia bere, quindi sono perfetti così.

A svettare su questa cornucopia di pezzi killer sicuramente l’opener “Almost 20”, qualcosa tra la Lady Gaga periodo “Art pop” e Sabrina Carpenter, ma con un tocco personale ad aggiungere pepe ad un canovaccio classico; e poi il verse-chorus-verse micidiale di “We’re friends, right?”, con Karin che sussurra morbida la strofa e poi si lascia andare ad una perfetta canzonetta (pop? Yes!) da due minuti e mezzo; a seguire, il lercio punkettaccio di plastica di “Looking at porn”, che col resto dell’album c’entrerà quanto lo zucchero di canna col pesto, ma è un’autentica goduria sparata lì con fiera baldanza ed una sfacciataggine invidiabile; infine il pulsare liquido ed i bassi profondi di “!Use me!”, che nemmeno sto a scrivere chi ricordino perché siamo ben oltre la citazione stilistica.

Il resto? Va benone, dal funky leggero à la Timberlake di “I’m a loser” all’aria deliziosamente afflitta che ispira il battito dub di “In company”, dal groove penetrante di “You should run from me” all’inaspettata chiusura morbida di “Winter song”, che riporta tutto a casa sulle note timide di un pianoforte addirittura toccante.

Nel dubbio, io il disco l’ho fatto ascoltare a mia figlia, che è una gran criticona, quasi peggio di me: ebbene, ha ottenuto la sua approvazione. Vuol dire che la strada è quella giusta.

Totale? Applausi. (Manuel Maverna)