recensioni dischi
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LETATLIN  "seaside"
   (2022 )

A volte è interessante osservare la metamorfosi di una band nell’arco di periodi medio-lunghi. Così per curiosità, per completezza, o soltanto per vedere di nascosto l’effetto che fa.

Qui parliamo di due decenni abbondanti e di un abisso a separare l’anno del Signore 2002 – che vide pubblicati in tre mesi “Radar anatomia per artisti” e “Missili sul Giappone”, rispettivamente ep ed album di debutto – dal 2022, tempo propizio per l’indefinibile pastiche di “seaside” su etichetta (R)esisto, quinto capitolo lungo della saga – per tacere di singoli, ep ed altro – nella storia dei Letatlin, piccola meraviglia nostrana nascosta tra gli esordi avant à la Starfuckers e l’odierna elettronica post-qualcosa.

E metamorfosi dunque sia, le cose cambiano, cambiano i suoni, cambiano gli orizzonti, cambia il modo di scrivere e di interpretare, cambia l’orecchio di chi ascolta. Nel mezzo, chi si evolve e chi resta nel guscio, chi rimane al palo, chi smarrisce intuizioni e chi esaurisce le idee, chi lascia perdere e chi si svende prima di lasciar perdere, chi semplicemente non ce la fa e chi crede di avercela fatta nonostante indifferenza ed oblio, amen.

Saltuariamente, i Letatlin sbucano come la (gradita) sorpresa dell’ovetto Kinder, offendo agli astanti il loro verbo mutevole, cangiante, variegato. Riescono ancora a sorprendere, e lo fanno immancabilmente buttando tutto all’aria e ricominciando da capo, questa volta baloccandosi ancora di più con il consueto art-rock fatto a brandelli, tra schegge di surrealismo, electropunk a profusione, schizzi nonsense e l’abituale patina off che da sempre ricopre ogni loro lavoro.

Sono rimasti definitivamente in due, gli immarcescibili Marc Mal De Vivre e Hans Plasma, a concepire e realizzare tutto: confondono, sperimentano, incuriosiscono. Fanno storcere il naso e scuotere la testa mentre ti chiedi per l’ennesima volta dove vogliano andare a parare. E intanto imbastiscono questo focoso guazzabuglio che impasta Krisma (ciao Christina, buon viaggio) e Talking Heads, Heroin in Tahiti e La Femme, un melting pot di kraut e psichedelia che in nemmeno mezzora ti sbatte dove vuole, peggio di una pallina nel flipper. Pervaso da un’aura di stranezza dada, mischia lingue e linguaggi espressivi, usa inglese, francese, italiano tra stralci di frasi smozzicate, effettistica assortita, boutade imprevedibili.

Gigioneggia nell’opener “La mouche”, accelera nella frenesia schizoide di “Don’t wink at me”, pesca dal cilindro perfino il country sbilenco di “Mexican serenade” e gli sketch avanguardistici di “The return of the Yeti” e di “Picnic in the sun”, prima che “A body with two heads” chiuda in bilico su un numero di equilibrismo - quasi i Daft Punk che coverizzano i Rockets - questo campionario vagamente allucinato di misurata follia, in attesa della prossima trasformazione. (Manuel Maverna)