recensioni dischi
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DIAMARTE  "Transumanza"
   (2022 )

Ora, restiamo coi piedi ben piantati a terra ed accantoniamo pure bellamente questioni legate ad eventuali velleità sperimentali, a geniali commistioni o alla prossima next-big-thing: qui abbiamo semplicemente un signor disco, che non si perde in sofisticate elucubrazioni né pretende di scoprire l’acqua calda a colpi di ideone cervellotiche.

La band che lo realizza è un quartetto molisano al debutto autoprodotto, creatura sulla quale ha messo occhi, mani e attenzioni Carmelo Pipitone (Marta Sui Tubi), e già questo varrebbe una stilla di interesse, un ascolto ben disposto ed un plauso per averci provato: il menu è promettente, ma non basta la carte, occorrono le idee, le ricette, lo chef.

Ecco, tutto ciò, dagli ingredienti alla batteria di pentole in acciaio inox, i Diamarte lo forniscono con una scioltezza sorprendente ed una padronanza della materia che stupisce man mano che ci si addentra nei meandri di “Transumanza”, dieci tracce discretamente feroci e dispettose costruite su quell’elettricità cattivella di cui tutti avremmo più bisogno.

Riferimenti più che ovvi, nemmeno occorre insistere: i numi tutelari Marlene, Verdena, Afterhours, ché in fondo tanto rock nostrano deve qualcosa a quei tali, poche storie. Ma i ragazzi – questo conta - sanno declinare i verbi e li coniugano con personalità, sintetizzando un linguaggio che non teme di mostrare la propria fierezza, a tratti sfrontata e spavalda.

Ammirevoli i testi, introspettivi ed ermetici come si conviene al genere, corretti talvolta da spunti legati al sociale - sebbene spesso mascherati e velati da un disagio di fondo tendenzialmente loser - e da impercettibili vibrazioni emocore sottotraccia, qualcosa tra i Cosmetic e i Marrano; accattivanti le linee armoniche, gli intrecci, le dinamiche; pregevoli le trame e certi sprazzi melodici svelati all’improvviso (“Marie”); intriganti taluni ingorghi davvero marleniani (l’ultimo minuto dell’opener “Resisto”), incalzanti i ritmi e stordenti certe furiose impennate storte e distorte (“Fuori traccia”, “Belzebù”).

Tanto per gradire, l’album offre tre pezzi giganteschi che svettano totemici su cotanto materiale, già ottimo e abbondante: in primis “Ira su Marte” – lamentazione smaniosa in minore, triste come un addio, prodigio di cupa introversione – a cui manca solo la voce di Alberto Ferrari per sembrare una outtake de “Il suicidio dei samurai”; poi, il quadro di desolato fatalismo sfumato nei sei minuti di “Fiori in via Fani”, che scivola via su un’aria dilatata, morbidamente mesta; infine, la chiusura afflitta in acustico di “Viola cornuta”, tenue poesia sporcata ad arte dai disturbi dell’ennesima chitarra nervosa.

Esordio statuario: è intenso, urgente, vivido e vibrante, coinvolge e si lascia amare. Non è il caso di gridare al miracolo, ma almeno al prodigio sì. (Manuel Maverna)