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JOE BATTA & I JEKO  "Come noi nessuno mai"
   (2023 )

Stavo preparando degli arrosticini per cena, intanto indossavo le cuffie ed ascoltavo il nuovo di Joe Batta & I Jeko. Mentre riflettevo distratto sul fatto che entrambi – la band e gli arrosticini - fossero abruzzesi, verso la metà della quinta traccia ho iniziato a capire l’album, che – lo confesso – fino a quel punto mi stava un po’ sfuggendo, presumibilmente perché avevo troppa fame per concentrarmici a dovere.

Ma certa musica riesce comunque a farsi strada tra i meandri dei pensieri, si infiltra come un sabotatore tra le linee nemiche, alla fine vince lei e tu sei contento.

“Come noi nessuno mai”, su label Old Tower Records, racconta in nove pezzi una storia che va al di là dei brani stringati e ruvidi, cantati immancabilmente da Giovanni Flamini con quel suo crooning un po’ bislacco, un po’ biascicato, un po’ alcoolico, un po’ - fondamentalmente – triste.

Sotto le non mentite spoglie di un disco rock, affiora in superficie quello stesso sentimento che pervadeva “Noi Odiamo Joe Batta & I Jeko”, piccolo-enorme debutto datato 2019: gente che ama far casino, ma che nell’anima, in fondo all’anima, ha molto da dire in un suo linguaggio scarno ed essenziale, crudo e spartano, sincero e diretto come un ceffone in piena guancia.

Musica insieme tenace e malinconica, che pesta un po’ più forte per ingannare il tempo che fugge inclemente, nascosta dietro il paravento di un rock solido sì, ma nostalgico. E’ un disco frontale e generoso che azzecca versi accattivanti, ritornelli, ganci e furbate assortite mentre suona come un amarcord dolceamaro, una somma di piccole cose, senza esplicite elucubrazioni esistenziali a smorzarne l’impeto, eppure profondamente velato da un’aura retrò in cui è bello perdersi.

Funzionano i singoli episodi, che sono come foto o tappe di un percorso, funziona anche la loro somma, se si ha la pazienza e l’attenzione da riservare al disegno complessivo. E’ un disco urgente che richiede dedizione, un’escalation che parte gigioneggiando coi due minuti e mezzo autoreferenziali di “Una Vita Rock’n’Roll”, si balocca col passo à la Kinks di “Ti Amo Ti Odio Ti Tutto”, gioca ai rocker di provincia ne “Il Ritratto Dell’Artista Da Giovane”, ma non sta affatto cazzeggiando, anzi: sta già raccontandosi, nell’apparente divertissement de “L’Anima Per Colazione” o nell’aspro garage di “Faccio Un Macello”, che funge quasi da cesura in preparazione al gran finale.

Da lì in avanti, il clima muta palesemente; si fa più intimo, confessionale addirittura, mette in piazza i sentimenti che aveva dissimulato, offrendosi nudo alla platea. Non è un caso che tre dei quattro brani conclusivi rallentino il ritmo, non è un caso che parlino una lingua diversa: la ballata dolente di “Non E’ Possibile” con la sua sfuggente coda strumentale, il singalong sbracato di “Fuori Di Testa”, il mid-tempo arpeggiato à la Zen Circus di “Carillon”, sublimato da un chorus memorabile che mi sono trovato a latrare, sgolandomi, proprio quando gli arrosticini erano oramai pronti. Mentre li portavo in tavola, la chiusura toccante della title-track, inno sui generis all’amicizia con dedica al passato e una lacrimuccia in agguato, mi ha spiegato definitivamente il messaggio, nel caso qualcosa ancora mi fosse sfuggito. Buon appetito. (Manuel Maverna)