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BLIND RIDE  "Paranoid-critical method"
   (2023 )

In questo mondo di fiacchi, ciò che da subito conforta in “Paranoid-critical method”, debutto lungo del trio molisano Blind Ride su label Overdub Recordings/Stock-a Productions, è che il brano di apertura dell’album sia quello scelto come primo singolo.

Vale a dire: ecco i miei gioielli, a voi il biglietto da visita, lasciate ogni speranza, ecc.

L’opener – per l’appunto – si intitola “Surrogate of a dream” e contiene in due minuti e quarantacinque secondi la summa dell’intero lavoro: ladies & gentlemen, we are floating in noise, o in hardcore, o in quello che volete, ma scordatevi accondiscendenza e bontà d’animo, meglio essere preparati.

Blind Ride sono Marco Franceschelli (chitarra e voce), Angelo Di Lella (batteria) e Piergiorgio Mastrantuoni (basso): nascono come band a Campobasso, esordiscono a marzo 2020 – in formazione leggermente diversa – con le sette tracce acidelle e irriverenti di “Too fast for a sick dog”, ep che li presentava all’insegna di un suono più ruvido dell’attuale, un garage-rock fragoroso e diretto figlio di padri illustri e di una evidente urgenza.

“Paranoid-critical method” affina la scrittura e aggiusta il tiro: è sempre sfacciato e frontale, ma più maturo ed elaborato, lavora con cura sui testi e sui suoni, prediligendo un approccio che rinuncia al chitarrismo sovraesposto del recente passato in favore di dinamiche più nitide, di un rumorismo compatto, di un taglio sempre feroce, ma più ordinato.

Vestigia di hardcore dei bei vecchi tempi sono ben presenti nelle sassate di “Relationship goals” e “For you”, veemente accoppiata che gravita in zona One Dimensional Man, ma tutto l’album è un assalto a testa bassa, sebbene paradossalmente composto. A tratti, non disdegnano l’inserimento di ganci melodici in cotanto bailamme (“Holy arrogance”, introdotta da un riff à la Cult e sviluppata lungo direttrici memori di Thurston Moore & soci), sfiorano i Bodega nell’episodio più pacato (“Numbers”), flirtano con echi fugaziani nell’ingorgo contorto di “Corporate rock”, deflagrano nel pathos opprimente di “Stranger to my eyes”, basso pulsante e chitarra lancinante in un clima incombente da spy-story, sommerso da un marasma di distorsioni in crescendo.

In coda, resta il post-rock - quello antico, quello vero – di “A song without words”, strumentale dissonante che riporta tutto a casa, onorando fino all’ultimo istante un disco di strabordante intensità, opera che non sfigurerebbe nel repertorio di blasonate band d’oltreoceano: aspro e complesso, impetuoso e indocile, ha lo spessore di un classico e la freschezza di una novelty. (Manuel Maverna)