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CRM (CUSTOMER RELATIONSHIP MADNESS)  "My lunch"
   (2023 )

Intimamente cupo, circondato da un alone di depressa negatività, sottilmente violento a tratti, sebbene in forme avulse dagli usuali crismi, oppresso piuttosto da una cappa di elettronica manipolata che si fa greve e sinistra, sventrata talora dalle distorsioni incattivite della chitarra, “My lunch”, su etichetta Overdub Recordings, vede il ritorno del quartetto CRM (Luca Palazzi, Francesco Degli Innocenti, Francesca Ronconi, Gianpaolo Rosato) a poco più di tre anni da “Who are exactly?”.

Introdotto dalla martellante cadenza sintetica di “Interference”, sabba convulso che ricorda il vagare sferzante e obliquo di Jacopo Incani, procede tra scosse repentine e pulsioni infide del basso, figlio dell’algido post-punk dei P.I.L. di “Metal box”; costruito attorno al canovaccio di un concept profondo e scomodo, guida lunghi e dilatati brani attraverso i cunicoli di un labirinto – musicale, ideologico – fatto di molti spigoli e pochissimi spiragli.

Atmosfere plumbee ed un generale senso di straniante incombenza veicolano testi amari ed espliciti, altrettanti strali lanciati erga omnes a definire il taglio di un album complesso ed impegnativo, un’ora abbondante di varia (in)sofferenza e piccato risentimento, aspra invettiva contro il consumismo condensata in parole rabbiose, riflessioni penetranti, clima fosco.

A sorreggere il tema portante, composizioni elaborate che solo di rado concedono aperture melodiose; a prevalere sono pezzi bui e insinuanti, cangianti nella forma, ma caratterizzati da un incedere spesso compassato, quasi trattenuto ad un niente dalla deflagrazione.

Si va dalla bordata incalzante di “Buy” all’inattesa armonia di una “Alone” infilata nel consueto cunicolo claustrofobico, da una lasciva “Weirdo” (con canto à la John Lydon e crescendo soffocante) alle divagazioni addirittura jazzy di “Vanity wheel” (impreziosita dalla voce di Elisabetta Caiani), dagli echi Joy Division di “Dreamers” all’aria suadente e notturna di “Mirror”, ibrido non improbabile tra la livida oscurità dei Depeche Mode e l’afflato mistico di David Tibet, fino alle contorsioni della conclusiva, ondivaga “Jesus’s back”, spenta in una coda di glitch e disturbi assortiti.

A torreggiare totemici su questo eden rovesciato, i nove minuti e mezzo della title-track: voce filtrata su un fitto rimbombare di bassi, ossessione monocorde scossa da improvvise accelerazioni e dal canto che si fa insistente, effimera quiete rotta da un beat house, agonia trascinata al suo naturale epilogo da un lento salmodiare. Quasi una pièce dadaista, emblema di un disco che non cerca ad ogni costo di mostrarsi gradevole: un quarto al piacere, ma non di più.

E’ la summa di quest’arte elaborata fatta di contrasti, sublimata in un climax più psicologico che emotivo, simbolo di un lavoro sornione e attendista, che gravita minaccioso attorno ad un centro che non c’è. (Manuel Maverna)