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STARAYA DEREVNYA  "Garden window escape"
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Apolide e nervoso, smarginato ed inquieto, teso ed impaurito come un fuggitivo su una strada perigliosa, “Garden window escape”, risalente al 2022, ma pubblicato soltanto ora dopo interventi di post-produzione e successiva raffinazione, è il lavoro che segna il ritorno del collettivo aperto Staraya Derevnya, fluttuante ensemble anglo-israeliano già più volte incensato su queste stesse pagine, ed oggi costituito da sette elementi, raccolti attorno al faro/nume tutelare Gosha Hniu, con la collaborazione di sodali di lungo corso (Maya Pik, Ran Nahmias, Grundik Kasyansky) e l’apporto di turnisti illustri, già da tempo aggregati alla band (Yoni Silver, Andrea Serafino, Miguel Pérez).

Nell’abituale crogiolo di suoni indocili e suggestioni misteriche - qualcosa di indefinibile, al crocevia tra folklore noir e derive psych sui generis, evidenti nella sgangherata, assillante opener “Tight-lipped thief” - vanno in scena quarantatré minuti di musica storta ed asfissiante, stordente a tratti, incalzante e brusca o falsamente conciliante, sfregiata da accenti pungenti e cadenze singhiozzanti, scossa da un cupo, sinistro, insistito martellamento della ritmica, sferragliante ed ossessiva, sebbene in fogge inusuali.

Melodie sporche sono trafitte da un tappeto di disturbi steso come coltre di aghi sotto la superficie perennemente increspata di un mare agitato e minaccioso: il risultato – sempre lontanissimo dalla forma canzone – sono sette composizioni libere e sciolte da vincoli di sorta, spezzate ed urgenti, corredate da brevi testi di poche frasi in russo, estrapolate ancora dalle poesie di Arthur Molev, versi ermetici declamati in un registro dimesso, o ripetuti in un delirio talvolta parossistico (i dodici minuti soffocanti di “Half-deceased uncle”), altrove inclini invece ad una ben celata melanconia (il passo a suo modo conciliante di “Cork flight operation”, con addirittura un accenno di armonia ed un timido ritornello sfigurato).

Tra spire e contorsioni, morbidamente allucinato, incombente ed ipnotico, l’album si avviluppa come edera attorno all’esile fil rouge di un esistenzialismo tormentato, in un milieu che sottrae riferimenti e mai concede appigli o facili scappatoie: “Virtue of standing still” procede straziata da rumori di fondo e torturati clangori metallici, preludio all’illusorio post-rock old style di “Onwards, through the garden window”, oscura ed insinuante alla maniera dei For Carnation, alternanza di sogno ed incubo che sublima in purezza questo trionfo di dissonanze, controtempi, battiti irrequieti, pulsare convulso, sussurri, voci dall’ignoto.

Volevo andare in paradiso/di proposito/per riposare per sempre/con un canto primaverile

Chiudono – inglobati In una bolla fragile ed inafferrabile, diorama instabile ed effimero - i cinque minuti sospesi e ondivaghi di “Myshhh”, figure di bassi acquattate in penombra a mimare spettri che aleggiano incorporei su un microcosmo popolato di demoni dispettosi, di spiritualità angosciata, di ordinaria afflizione.

Strade di chiodi storti/e posacenere pieni/idee vuote e friabili/da zuccheriere polverose

Passione e detriti, mondo fiabesco non privo di travaglio, quasi l’accompagnamento sonoro ad un quadro di Chagall, ma senza amanti stretti per mano, con ben poca pace bucolica e, verosimilmente, nessun lieto fine a breve scadenza. (Manuel Maverna)