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17/04/2020 BOB DYLAN
Esce ''I Contain Multitudes'', una nuova canzone originale: l'approfondimento di Samuele Conficoni
Dopo “Murder Most Foul”, il suo primo brano originale in otto anni, pubblicato a sorpresa a fine marzo nel mezzo di una pandemia che sta sconvolgendo il mondo – un canto di morte, di rinascita e di celebrazione della tradizione, in onore del Presidente Kennedy, che si dipana in quasi diciassette minuti –, Bob Dylan scompiglia ancora una volta le carte e pubblica all’improvviso un altro brano. Piuttosto simile, nell’arrangiamento, nella voce e nella strumentazione, al precedente, “I Contain Multitudes” sembra provare che siamo in presenza di canzoni registrate in una session in studio piuttosto recente e composte presumibilmente poco tempo fa. L’immagine che correda il brano è uno scatto, opera del superfan italiano Andrea Orlandi, di Bob Dylan in concerto a Salisburgo nel 1996.
Tanti sono i punti di contatto con “Murder Most Foul”, della quale scrissi qualche settimana fa. Sono somiglianze non solo musicali ma anche contenutistiche. L’arrangiamento e la voce di Bob Dylan, che accarezza ruvidamente ogni passaggio significativo del testo, sembrano provenire da un club musicale underground statunitense che a un certo punto della nottata si riempie di fumo di sigarette, di alcol e di note che paiono giungere da un’epoca lontanissima. Il cantore si siede di fronte al proprio strumento ed è pronto a raccontare una storia. È l’aedo, è il rapsodo greco, è la voce della memoria della tradizione orale afroamericana, è tutto ciò, insomma, che dà alle canzoni dylaniane quella «dimensione omerica» della quale lui stesso parlò in un’intervista rilasciata nel 2016, a poche settimane di distanza dall’annuncio del Nobel, evento sul quale scrissi un saggio proprio su queste pagine.
E la storia che Bob Dylan ci racconta, qui come in “Murder Most Foul”, come in “Tempest” e come in tantissimi altri brani post-1997, è composta da tantissime citazioni, situazioni e nomi. È come se Dylan – di questo ipotetico approccio compositivo ha scritto diffusamente, in articoli e saggi, lo studioso Alessandro Carrera: io appoggio la sua teoria – stesse pescando foglietti da scatole che ha di fronte a sé, magari suddivisi in base ai temi o alle fonti. Questi foglietti contengono citazioni da brani tradizionali antichissimi, da film di nicchia o famosi, da bluesman sconosciuti ai più, da gospel oscuri, da straordinari autori letterari, da celebri o meno noti personaggi storici. Se in “Murder Most Foul” Dylan provava a riscrivere letterariamente la storia dei Sixties statunitensi e di tutto ciò che scaturì da essi, qui Dylan prova a riscrivere letterariamente sé stesso, sempre che stia parlando di sé. Più che in altri casi Dylan rende qui espliciti i nomi di coloro che vuole ricordare. Tuttavia, è proprio attraverso questo procedimento che finisce per nasconderne, tra le righe, tanti altri, che starà al ricercatore o al giornalista scovare.
Il titolo “I Contain Multitudes” è un rimando alla Song of Myself di Walt Whitman, uno dei tanti amori letterari di Dylan, e nel testo si citano i nomi di Edgar Allan Poe e William Blake. Anna Frank e Indiana Jones sono nominati all’interno dello stesso verso, l’una appena prima dell’altro, entrambi trasfigurazioni del narratore. Fanno la loro comparsa quei «British bad boys» che sono i Rolling Stones, ci sono rimandi al grande David Bowie e sono evocati Chopin e Beethoven. Siamo in un poema omerico, siamo catapultati in John Milton, siamo forse dalle parti di Eliot. «Today and tomorrow and yesterday too», così il brano inizia, e Dylan, di nuovo, si è appena fatto aedo.
L’autore penetra ogni crepa, ogni singola sillaba, dà vigore a tutto quello che interpreta. Attraverso ciascuna parola egli si fa rappresentazione viva e pulsante della tradizione, di un enorme universo, dell’umanità intera. Non manca l’ironia: «I drive fast cars and I eat fast foods / I contain multitudes», canta Dylan. «I carry four pistols and two large knives / I'm a man of contradictions, I'm a man of many moods», continua, ed è inutile ribadire che svariati passi del brano potrebbero essere evidenti autorappresentazioni o caricature dell’autore, da sempre schivo e alieno dal voler parlare di sé ma così abile a camuffarsi e a camminare indisturbato dentro le sue canzoni.
Come al solito, nel suo più unico che raro sincretismo artistico – che è sincretismo di religione cristiana ed ebraica, di cultura “alta” e di cultura “popolare”, di mondo ebraico e di cultura afroamericana, di presente e di un passato lontano, di sacro e profano –, Dylan prova ad abbracciare tutto quello che può, tutti i simboli culturali ai quali, come a un salvagente gigante, cerca di appigliarsi dopo che il Titanic è ormai naufragato. Perché per lui l’universo si sta sfaldando da secoli, mica solo adesso che c’è la pandemia.
Sembra, anzi, che Dylan stia utilizzando questo momento di crisi per dirci semplicemente che aveva ragione, che la fine dei tempi che cantava in “A Hard Rain’s Gonna Fall” (1963) è arrivata. La cantava già nei traditional che interpretava nei primissimi Sixties e che di tanto in tanto ha pure riproposto negli Anni Ottanta e Novanta, la cantava durante il periodo gospel (1979-81), poi in “Things Have Changed” (2000), in “Ain’t Talkin’” (2006) e in “Tempest” (2012). È sempre stata di fronte ai nostri occhi. Dylan, più che alla religione, alla scienza o alla storia, si aggrappa alla musica. «The songs are my lexicon. I believe the songs», dichiarò in una cruciale intervista a Newsweek dell’ottobre 1997, mentre Time Out of Mind era da poco uscito. Oggi Bob Dylan canta questa fine dei tempi con discreto ottimismo. Non sembra rassegnato, non sembra spaventato. In questo brano, anzi, c’è vitalità. Dylan parla di amore, di sé, della propria arte. Giunge «right where all things lost are made good again», che è forse il momento cruciale dell’intera canzone, non a caso posto appena prima della citazione alle Songs of Experience di Blake.
Dylan è enciclopedico. Deve abbracciare l’intera realtà e anche quello che è immaginato, fittizio, ipotetico, per far sì che non muoia. Canta sottovoce ma in realtà la sua testa ormai esplode per le troppe informazioni che ha dentro. Sembra tranquillo, sereno, ma la sua è la serenità del saggio che sa che la tempesta è arrivata. Lui, anzi, vedeva quella tempesta da sempre, ci è nato, ci è cresciuto e vissuto. È semplicemente stato più bravo degli altri perché l’ha vista per primo e ha provato a esorcizzarla da subito con la sua stessa arte. Sì, Dylan ha provato a cantarla. Ora anche il fiato dell’aedo sta per terminare, perché canta centomila cose ma vorrebbe cantarne almeno dieci volte tante.
(Samuele Conficoni)