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14/02/2016   SANREMO 2016 - IL NOSTRO COMMENTO (SEMISERIO)
  Il Festival secondo ''Sua Acidità'' Enrico Faggiano

Deborah Iurato e Giovanni Caccamo – Via da qui – (3) – Poca roba, che dimostra come a Sanremo storicamente le coppie che si guardano negli occhi raccontandosi chissà cosa sono sempre sovradimensionate. Banale, da far rimpiangere i Jalisse, arrivano terzi: sospiro di sollievo, di Giò di Tonni e Lole Ponce ne abbiamo avuti già abbastanza.

Noemi – La borsa di una donna – (8) – Una di quelle ragazzotte moderne che hanno reso Sanremo il giardino di casa propria: Noemi e Annalise, che si alternano con le Chiare e altre decognomate. E il discorso è sempre lo stesso: non sono distinguibili, quando un tempo bastava una nota per capire che si trattava, per dire, di una Bertè piuttosto che di una Oxa, di una Mannoia piuttosto che di una Rettore. Qui potrebbero cambiarsi le canzoni e nessuno se ne accorgerebbe, al di là del valore artistico. Relativo e sanremese.

Alessio Bernabei – Noi siamo infinito – (14) - Alziamo i bpm, ma con una domanda: perché Renga nel 2001, a 10 anni dal suo esordio sanremese e con una discreta carriera con i Timoria, ripartì dai giovani, e questo è invece tra i big? Blando e ruffiano minutaggio elettropop, alla ricerca del gol come Nek lo scorso anno. Ma è talmente inutile, vecchio dentro, da chiedergli se lui, davvero, nella sua stanzetta, ascolterebbe un disco di Alessio Bernabei. Vince il derby con gli ex compagni, forse lo si nota dai calli nelle mani e dalle occhiaie, ma ci voleva davvero poco. E, comunque, al pubblico andavano evitati gli effetti collaterali di questa moltiplicazione.

Enrico Ruggeri – Il primo amore non si scorda mai – (4) – Oddio, vestito come una caricatura di un menagramo, e con un colore di pelle irreale (grigio??), ha la curiosa situazione di portar canzone rock, lui che da ggiovane andava spesso e volentieri di cantautorato raffinato. Spiazzante, ma alla fine si fa ascoltare: il guaio è che, oggi, è difficile capire cosa sia un Enrico Ruggeri.

Arisa – Guardando il cielo – (10) - Il problema è uno solo: questa, a sette anni dall’esordio sanremese, ancora non ha nulla al di fuori del Festival che sia stato minimamente di successo, e allora qualche dubbio se lo dovrebbe porre. Tutto ok, brava, simpatica, ma esiste un mondo, oltre i fiori di riviera. E il rischio è di finire come una Fiordaliso qualsiasi, se non si cambia regime. La voce ci sta, bella senza doversi limitare ad acuti e arzigogoli. Eppure, oltre non si va.

Rocco Hunt – Wake up – (9) – Beh, se si trattasse solo del ritornello, sarebbe una cosa anche carina, perché ti resta in testa subito e probabilmente diventerà un modo di dire collettivo. Così come anche il groove, che forse non sarebbe dispiaciuto al Pinone partenopeo. Solo che attorno c’è un soggetto che non si capisce cosa sia, e un testo farcito di banalità e paraculaggini che richiamano, più che altro, a Gigi Finizio: a quando una bella operazione con i ragazzi di Scampia? Riuscisse ad uscire dalla solita protesta sociale all’acqua di rose, chissà.

Dear Jack – Mezzo respiro – (fuori) - No, per cantare a pieni polmoni bisogna respirare del tutto. Dimostrano (ma sulla questione Africa-ritmo ne aveva disquisito anche Elio) che non tutti i colored sono intonati: però, metterne uno davanti al microfono era necessario? Poi sarà il gap generazionale, ma non esiste una ragione che una per tornare a sentirli. Staccare appunto il jack, togliere la corrente, e rimandarli a scuola: meglio qualche disoccupato in più, ma una inutile band in meno. Benchè sponsorizzata fin troppo da determinati network radiofonici, che escono sconfitti.

Stadio – Un giorno mi dirai – (1) – Vincenti a sorpresa, loro che a Sanremo venivano spesso presi a pesci in faccia ai tempi d’oro. Potrebbe essere quasi un premio alla carriera, ma tutto sommato è una canzone alla Stadio, e alla fine il vederli nell’albo d’oro è qualcosa che fa più onore all’albo d’oro stesso che non a loro. Mettono tutti d’accordo, a dimostrazione che da queste parti basta un minimo di professionalità (Vecchioni, remember?) per sembrare dei mostri sacri. La canzone ok, sembra la versione al paterno di “A modo tuo” di Elisa/Ligabue, ma va bene lo stesso.

Lorenzo Fragola – Infinite volte – (5) – Il discorso dei ripetitivi fatto al femminile, per chi esce dai talent come prodotto di laboratorio del tutto inadatto al mondo esterno. Diventerà anche lui arredamento sanremese (già iscritto al Festival del 2018?), e qualcuno gli spieghi che per fare carriera e diventare qualcuno servirà andare oltre il sussidiario e l’astuccio: anche perché le ragazzine si stancano, e chi sta dietro alla promozione ci mette un attimo a trovare, per esempio, un Fiorenzo Albicocca su cui puntare, dimenticandolo.

Annalisa – Il diluvio universale – (11) - Una di quelle ragazzotte moderne che hanno reso Sanremo il giardino di casa propria: Noemi e Annalise, che si alternano con le Chiare e altre decognomate. E il discorso è sempre lo stesso: non sono distinguibili, quando un tempo bastava una nota per capire che si trattava, per dire, di una Bertè piuttosto che di una Oxa, di una Mannoia piuttosto che di una Rettore. Qui potrebbero cambiarsi le canzoni e nessuno se ne accorgerebbe, al di là del valore artistico. Relativo e sanremese.

Irene Fornaciari – Blu – (16) - La Zucchera continua a portare avanti una sua strada nel totale anonimato, fatta di interpretazioni scolastiche, ma senza nessuna alchimia che spinga la gente a volerla riascoltare, anche in questa versione socialmente impegnata. Commento letto da qualche parte, “possibile che nessuno dell’entourage del babbo sia in grado di costruirle addosso una buona canzone, possibilmente davvero inedita?”. Ci sta: lei, intanto, non può non continuare a passare per una che, con altro cognome, sedimenterebbe nelle Nuove Proposte fino ad età pensionabile. Oltretutto, il non essere figlia di talent la rende meno sponsorizzata da chi, oggi, davvero comanda. Però supera il babbo, che a Sanremo ha fatto sempre peggio.

Neffa – Sogni e nostalgia – (fuori) - Si traveste da vittima designata, d’altra parte non fa molto per non farlo, in questo suo strano percorso professionale che lo ha portato a fare di tutto un po’, ma niente di davvero segnalabile. Forse nemmeno una delle migliori canzoni di Neffa, per il solo fatto che a Sanremo ci si deve complicare la vita e rendere difficili le cose semplici. Peccato, va in panchina come il suo omonimo della Cremonese.

Zero Assoluto – Di me e di te – (fuori) - Ballassero un po’ di più, sembrerebbero due Mauro Repetto senza un Pezzali davanti. Canzone che è un chiaro tentativo di seguire le strade del Nek dell’anno scorso, forse anche meno criticabile di quanto non lo sia stata. Radiofonica ma biodegradabile, biodegradabile ma radiofonica: forse non se ne sentiva la necessità, ma se questo fosse il metro, allora anche tutte, ma tutte le altre…

Dolcenera – Ora o mai più – (15) - Lei mantiene un suo percorso, fatto di canzoni mai uguali a loro (perché questa, un po’ di quell’altra che diceva di come “tu mi fai sentire come una donna naturale”, ce l’ha, dai) e di cose comunque interessanti. Fosse stata scritta in inglese e portata da una qualche strabig straniera, ci sarebbe stata l’ovazione. Ma lei è Dolcenera, che forse il grande salto non è ancora riuscita a farlo del tutto. Peccato, perché questa merita, e si fa notare anche in un caos di brani sonnolenti. Arriva molto in basso: inspiegabile, anche perché lei è molto più riconoscibile delle decognomate.

Clementino – Quando sono lontano – (7) - Se sei lontano puoi anche restarci, verrebbe da pensare, ricordando come “Nostalgia canaglia”, illo tempore, diceva poi le stesse cose. Ora pare che i rappers debbano essere tutti napoletani, e che a Sanremo debbano sempre e comunque tirar fuori faccende ruffianamente sociali. Musicalmente meno incisiva ma con testo meno loffio di quello del suo compare Rocco, ma... un tempo i rappers non erano bellamente fuori dal sistema? E ora vengono tutti qui a cercar televoti? Oltretutto è un guaio, perché lui e il compare è come se si fossero divisi gli sms che sono arrivati da dove, nel frattempo, si guardava la partita.

Patty Pravo – Cieli immensi – (6) - Sembra ormai l’ostensione di una reliquia, intoccabile ed eterea, ma sfiatata e quasi tenuta su con lo scotch. Canzone che sembra volersi rifare al repertorio sanremese più soft (“E dimmi che non vuoi morire”?), ma alla fine l’unica cosa che rimane al ricordo è la domanda: questa volta, dopo averla vista, Riccardo Fogli non ha lasciato i Pooh.

Valerio Scanu – Finalmente piove – (13) – Altro soggetto che, uscito anche vincente dai suoi laghi dove copulava un tempo, ora non sa che fare e che dire per andare avanti in carriera. A dimostrazione che i talent ti danno una discreta forza in partenza, ma poi non ti spiegano cosa fare. D’altra parte sono tutti uguali, tutti, uguali, tutti uguali, tutti uguali, etc. Alla prossima, se ne parlerà a Meteore?

Bluvertigo – Semplicemente – (fuori) - Semplicemente, il degrado. A parte la voce di uno al cui confronto un Luca Carboni con il mal di gola parrebbe Bocelli, ma si ignora il perché una band che prima imitava i new romantic dei primi anni '80 e i Depeche Mode, ora sia riapparsa per rifarsi ai peggiori New Trolls in modalità sanremese. Di fatto, rendendo i Bluvertigo un prodotto del tutto privo di motivi d’esistere.

Francesca Michielin – Nessun grado di separazione – (2) – La migliore delle fanciulle, ora bisognerà capire il perché. La forza di avere un cognome? Mistero, come capire chi l’abbia vestita. Resta, per l’ennesima volta, la necessità di identificare la sua cifra stilistica per non confonderla con quella delle altre. Per dire: Chiara Dello Iacovo, seconda tra i giovani, la riconosci subito. Vediamo cosa capita, ma senza l’impressione di trovarsi di fronte a una che, tra un decennio, possa fare da superospite.

Elio e le Storie Tese – Vincere l’odio – (12) - Ormai il mondo è diviso tra chi li ama a prescindere, e chi è stufo del discorso per cui chi non li ama non capisce niente di musica. La canzone è un mero esercizio di stile, per far capire come sono bravi? Può essere, di certo se fosse solo un medley di brani non completati, nessuno griderebbe al miracolo, anzi si farebbe notare come anche il mischione che chiudeva “Abbey Road” dei Beatles era la stessa cosa. Il problema resta lo stesso: grande accademia, ma i brani devono anche provare a dire, a trasmettere qualcosa, e qui non passa niente se non dell’allegro stupore. Come, appunto, una normale cantante con tanta voce ma poco altro. Chiaro, gli Elii si amano, ma si possono anche discutere: comunque, il dodicesimo posto è una idiozia, anche solo per rispetto al look da Kiss che li eternerà nei secoli.

Giovani – Meglio del solito, molto meglio del solito. Vince uno che è anche bravo nel mischiare citazioni di vario genere (e Battiato a pensare “ma che è, un mio nipote illegittimo?”), ma anche svariati altri meriterebbero ascolti. Che poi da duemila anni non esca tra i giovani uno capace di diventare credibile anche al di fuori del microcosmo festivaliero, è un altro discorso.