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27/01/2024   PIERPAOLO CAPOVILLA
  ''Il palcoscenico, è lui il problema. Perché un concerto è un momento di vita veramente e finalmente vissuta...''

"Triste solitario y final" è il nome del progetto creativo orientato alla melanconica riscoperta delle canzoni scritte da Pierpaolo Capovilla nell'arco di quasi un trentennio e rivisitate per l'occasione da Nicola Manzan, violinista e chitarrista rock. Questo nuovo sodalizio artistico sta girando i piccoli teatri indipendenti ed è stato ospitato di recente anche ad Imperia all’Attrito. Il concerto del duo è stata un’autentica chicca per un pubblico sempre attento e generoso. Capovilla ha spaziato dall’esordio con gli One Dimensional Man, datato 1996, alla successiva esperienza del Teatro degli Orrori, che si è conclusa nel 2020. In mezzo c’è stato il tempo per riascoltare brani del disco solista "Obtorto Collo" e di "Finché Galera Non Ci Separi", progetto poetico-musicale realizzato con i testi di Emidio Paolucci, poeta anarchico e detenuto ergastolano. Non sono mancate anche canzoni dei Cattivi Maestri, la band attuale di Capovilla, nata nel 2022. L’occasione del concerto di Pierpaolo Capovilla si è presentata ghiotta per fare una chiacchierata-intervista senza filtri (ma le sigarette sì, quelle del maestro mannaggia se lo hanno!).

Ciao maestro, sono Pierantonio… “Ciao, io sono Pierpaolo. Lo vedi? Siamo due Pier”.

Se ti dico la parola “musica” da cosa partiamo per un dibattito? “Io dico che c‘è ancora tanta buona musica a livello indipendente, ma a livello mainstream non c’è più niente, assolutamente niente. Comunque sottolineo che è grazie alla musica e con la musica possiamo parlare di qualsiasi tema”.

Come giudichi oggi il panorama musicale italiano? “Non sono così ferrato su quello che si ascolta oggi, su quello che gira oggi nel mercato discografico italiano. Provo uno schifo infinito per Sfera Ebbasta o Emis Killa e un amore incondizionato per Laszlo de Simone. Insomma c’è ancora tanta buona musica a livello indipendente, ma a livello mainstream non c’è più niente, assolutamente niente”.

Può esserci un ritorno al vecchio modo di fare musica? “Temo che non ci sia, però il persistere e il resistere dei negozi di musica e dei vinili mi lascia una piccola dose di luce. Vuol dire che insistono ancora nella realtà delle forme di resistenza ai dispositivi elettronici, a internet e al capitalismo. Un negozio di dischi oggi come oggi è una cosa socialista”.

Però oggi senza i social sei tagliato fuori... “Per come la vedo io i dispositivi che ci suonano la musica gratis rappresentano una gigantesca mistificazione della realtà. Ci troviamo davanti a un naufragio collettivo e ne siamo totalmente complici. Non facciamo gli ipocriti, non nascondiamoci, questo è il presente, privo di contenuti ma del quale non possiamo più farne a meno”.

Come salviamo la musica oggi da tutto questo? “Io non mi sento un messia. Come la salviamo la musica? Io vengo dalla lotta di classe. Credo che la lotta di classe sia la storia e il cuore della democrazia, credo che la musica popolare debba essere, sia la lotta di classe, che debba partecipare alla costruzione dei diritti delle masse lavoratrici. Allora come la salviamo? Potrei rispondere andiamo ai concerti di Emis Killa o Sfera Ebbasta e prendiamoli a calci nel c..o, e se lo meriterebbero. Ma non avremmo fatto niente di così significativo ma solo manifestato in maniera rozza la nostra avversione verso l’ignoranza. Non è colpa dei ragazzi se ascoltano questo, è colpa di chi la fa e di chi la veicola questa feccia di roba. E’ colpa dell’industria discografica, sono solo loro che fanno i soldi con questa roba. Racconto una cosa mia personale. Sono andato col mio manager a proporre il mio lavoro “I cattivi maestri” e mi hanno risposto che il chitarrismo ormai è finito. Il rock è diventato chitarrismo. Abbiamo a che fare con dei personaggi talmente gretti, così privi di intelletto che per forza sfornano i trapper e fanno i soldi veri. Quattrini veri inteso come diritti di edizione, non vendita di dischi. Ovvero discoteche, biglietti, Siae e quindi diritti. Come la combattiamo questa deriva funzionale al capitale, i padroni che vogliono che i nostri ragazzi siano stupidi, ignoranti, analfabeti? Come la combattiamo questa decadenza culturale? Lo facciamo scrivendo delle canzoni degne di questo nome. Certo ormai io non sono più giovane, sono un boomer, si sono inventati questa parola. Io per questi ragazzi posso essere un padre, posso essere un poliziotto, posso essere un sacerdote, posso parlarti, dirti che c’è un mondo diverso, se vuoi e se puoi devi riuscire a pensarlo. Ed io da buon compagno comunista credo che questa sia l’unica via, quella della didattica, della pedagogia. E magari portarli ad ascoltare un concerto di quelli come Dio comanda. Non possiamo pensare di reprimere i nostri ragazzi, di liberarci di loro. Cambiare la musica in Italia non lo fai dall’oggi al domani. Ci vogliono tanti giorni, settimane, mesi, anni e noi dobbiamo esserci perché l’impegno politico costa fatica, è un sacrificio, è però è una grande gioia. Darsi da fare nella vita è ciò che rende la vita degna di essere vissuta”.

Nel 2022 per te un nuovo capitolo discografico. Hai fondato “I Cattivi Maestri”, dirompente formazione in cui figurano anche Egle Sommacal (Massimo Volume), Fabrizio Baioni (LEDA) e Federico Aggio (Lucertulas) e con la band hai realizzato un nuovo disco che, in un momento storico colpito da un conflitto senza precedenti nel cuore dell’Europa, ha come tema dominante proprio la guerra... “Sono dieci canzoni, otto cazzotti e due carezze, per raccontare questi tempi di violenza e sopraffazione, il paese e il mondo in cui viviamo. Guerra intesa come violenza nelle sue diverse accezioni, sia essa militare, simbolica o interiore. Sia essa quella che uccide i corpi o quella che ferisce il cuore. Ciò che si teme nel disco è ciò che si sta verificando adesso. Non è una profezia, è il terribile ordine delle cose”.

Come ti approcci alla scrittura di quei testi che invece hanno un piglio più social-politico? “Studiando Majakovskij, ho compreso che pubblico e privato sono in rapporto dialettico, nel senso marxiano del termine. Poeti come Majakovskij, Esenin, Artaud, Pasolini mi spingono verso una narrazione che esalti questo rapporto dialettico. Per lo meno ci provo. Spero”.

Cos’è per te una canzone? “Che domandona! Prendo come esempio una mia canzone qualsiasi. Quando io scrivo una mia canzone voglio dire delle cose, voglio manifestare il mio pensiero su un certo tema. Ci impiego un pò di tempo, ci metto le mie capacità, i miei strumenti intellettuali, culturali, ci metto quel pò di talento che ho. Ci posso impiegare qualche ora oppure mesi. La scrivo e poi la vado a registrare, poi te la suono dl vivo. Questo per me è un motivo esistenziale, io ho bisogno di fare questa cosa perché altrimenti sentirei la mia vita piuttosto inutile o comunque se non inutile deficitaria. Mi capita di passare giornate, settimane, mesi completamente improduttivi e mi fa sentire in colpa con me stesso. Poi scopri che poi tante altre persone, donne e uomini, ascoltano quella tua canzone e non comprendono quello che tu avevi in mente ma qualcos’altro. Quel “qualcos’altro” è la continuazione del processo creativo. Cioè tu volevi dire una cosa, e l’hai detta, e l’hai manifestata con tutto il cuore e con tutto il tuo intelletto, poi chi la ascolta vuole essere partecipe di quei contenuti, e partecipando con il proprio cuore e il proprio intelletto comprende qualcosa di diverso. Ecco allora che il processo creativo creativo di una canzone, di una mia canzone, non si ferma solo nella sua scrittura, nella sua registrazione in studio, nella sua esecuzione dal vivo, ma continua in chi la ascolta a casa, su un vinile, su un mp3, in qualsiasi altro mezzo tecnico. La vita continua nella vita della gente. Scrivere una canzone, suonarla, ascoltarla e poi farla propria sono un po’ la stessa cosa. I due aspetti si coniugano “Hegelianamente”, per farla breve possiamo dirla come “Tesi, Antitesi e Sintesi”. Se tu raggiungi un minimo di sintesi hai vinto. La canzone ha raggiunto il tuo obiettivo”.

C’è stato un momento in cui hai pensato di smettere di fare il cantautore? “Allora, senti un po’ cosa ti dico. Chi di noi non si è sentito perso, naufrago, sconfitto almeno una volta nella vita? Ho pensato spesso di abbandonare il mestiere del rocker. Ma il rock è una malattia, una di quelle che si cronicizzano dentro di te, o te ne sbarazzi da giovane, o te la porti in corpo per sempre. Il palcoscenico, è lui il problema. Perché un concerto rock, non tutto il rock, è ovvio, è un momento di vita veramente e finalmente vissuta. E io ogni volta ho l’adrenalina a mille. Salgo su un palco, suono, canto, rido, piango, fumo, mi commuovo, biascico, poi finisce tutto e devo per forza ricominciare. E’ così”.

La passione civile e l’attaccamento ai valori democratici sono sempre ribaditi tanto nei tuoi concerti quanto negli incontri pubblici... “La musica popolare può contribuire in maniera significativa alla edificazione di un pensiero collettivo, di un immaginario diverso da quello che ci troviamo oggigiorno. E’ un compito da cui non ci possiamo sottrarre. Se ci sottraiamo a questo giochiamo a un gioco che non vale la pena essere giocato. Noi siamo assurdi e dobbiamo nella nostra assurdità lottare con la razionalità del capitale. Dobbiamo riportare la musica e la canzone popolare a un qualcosa di assolutamente importante, significativo, ineludibile nella vita delle persone. La storia della canzone italiana è stata questo. Pensiamo a Piero Ciampi, a Tenco, prima delle grandi speranze socialiste, quindi arrivano Guccini, De Gregori, De Andrè, Pino Daniele, Ivan Graziani. E allora la canzone può avere veramente un ruolo politico nella società. E quando si parla di politica non dobbiamo fare il discorso dei nostri padroni. Politica non è il partito, non è la militanza, la politica è tutto, è la nostra vita privata e la nostra vita pubblica”.

Chiudiamo con un ultimo argomento purtroppo drammaticamente attuale. La guerra in Palestina… “Ultimamente mi ha scritto Giancarlo Onorato che mi ha chiesto di fare qualcosa insieme a lui sulla questione palestinese. Ma come è possibile che noi artisti in Italia delle canzoni popolari, del rock non abbiamo niente da dire? E’ in corso un genocidio in Palestina, uno spaventoso crimine contro l’umanità uguale a quanto accaduto nel bombardamento di Dresda degli anglo-americani che durò dieci giorni, quello su Tokyo con il fosforo che uccise duecentomila persone, quello delle bombe atomiche Hiroshima e Nagasaki. In questo momento sta avvenendo la stessa cosa sulla striscia di Gaza. Proviamo a fare uno spettacolo insieme, a risvegliare le coscienze ma non solo della gente ma dei nostri colleghi. Dove sono i nostri colleghi? Siete bravi a fare i giudici a X Factor però non ce la fate mica ad aprir bocca, a dire una, una parola quando avvengono queste cose mortificanti non soltanto per l’umanità ma per noi, noi artisti, per noi autori di canzoni. E allora che cazzo le scrivi le canzoni se poi non hai niente da dire della realtà? Andiamo dai, ritorniamo a un minimo di serietà. Io a Giancarlo ho risposto che ci sono, ci sono quando e come vuole per fare qualcosa con la nostra musica. Non vedo l’ora”.

Ringraziamo per questa lunga chiacchierata Pierpaolo Capovilla che si è distinto ancora una volta per la sua devozione alla tradizione del rock più sanguigno, per l’affezione alla poesia e alla drammaturgia russa, ma soprattutto anche per la passione civile e l’attaccamento ai valori democratici. (Pierantonio Ghiglione)