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26/11/2015   THE D.
  ''In studio si pomicia con educazione, dal vivo si fa l’amore...''

''United States of Mind'', primo album dei The D: un disco nato “dal basso”, visto che avete avuto il sostegno di numerosi raisers di MusicRaiser... ''Si, l’apporto dei raisers è stato fondamentale, sia da un punto di vista pratico (non staremo qui a parlare di quanto sia costoso produrre un disco), sia da un punto di vista affettivo. Rendersi conto di quante persone avessero voglia di contribuire alla nascita ed alla crescita di questo progetto è stata una spinta fortissima''. Nel 2013 pubblicavate ''Alf'': che differenze ci sono tra il primo Ep e ''United States of Mind''? ''Beh, ''Alf'' era nato quasi come un gioco, durante l’estate, c’erano dei brani pronti e già rodati dal vivo ed il tempo per provare a buttarli su disco. Il lavoro del nostro amico Andrea Fiordalisi (il tizio saltellante sulla copertina) alla consolle ha fatto il resto, cinque tracce che delineavano la sagoma della band, sia da un punto di vista sonoro che di scrittura. ''United States of Mind'' invece ci ha letteralmente impegnati anima e corpo per più di un anno. C’erano dei brani già pronti e delle idee che hanno assorbito tempo per essere strutturate, ci siamo allontanati dalla scena live per lavorare esclusivamente alla realizzazione di quello che per noi è il primo album di lunga durata. Le differenze sono tante, diverso è l’approccio alla scrittura ed all’arrangiamento di un LP rispetto ad un EP, c’è stato bisogno di lavorare alla coerenza e completezza della tracklist, all’omogeneizzazione di brani apparentemente molto distanti tra loro. È stato come costruire il Millennium Falcon con le Lego, abbiamo dovuto assemblare “il più veloce pezzo di ferraglia di tutta la galassia” mattoncino per mattoncino''. I pezzi di USM sono scritti dal gruppo o c’è qualche penna prevalente nei The D? ''Le linee musicali, per gran parte dell’album, vengono dalle mani e dal cuore di Dario, poi vengono elaborate dalla band. Ognuno aggiunge tracce del proprio DNA al brano fino a renderlo un brano di The D. I testi li scrive Giuseppe per l’esigenza di adattare la ritmica alla musica (e viceversa) e poi buttare tutto in un microfono. Scrive per assecondare le proprie corde vocali e la necessità di spostare pensieri e ricordi dal cervello alla carta e, successivamente, su disco. E' diverso il rapporto che riesco ad avere con chi ho di fronte nei live, se quello che canto proviene dalla mia testa. Il rapporto diventa più confidenziale, più intimo''. Siete stati molto attenti alla lavorazione in studio, come testimoniato dalle polaroid diffuse via Facebook nei giorni precedenti all’uscita del disco. Con il produttore vi siete anche tolti qualche sfizio sonoro… ''Per noi è stata un’esplorazione continua, abbiamo sperimentato tanto, abbiamo registrato una traccia di chitarra attraverso un mattone, reso partecipe un albero delle sessioni di incisione della batteria, utilizzato un giubbotto come shaker e giocato con l’olofonia. Lavorare con il producer Federico Carillo è stato estremamente interessante e stimolante, molti brani sono rinati grazie a questa collaborazione. L’ingresso del synth ci ha aperto mille altre strade sonore, arricchendo e completando il sound della band che resta, comunque, fedele a quanto già espresso in ''Alf''''. Non vi risparmiate quando si tratta di dichiarare il vostro amore per il rock britannico: quali sono i nomi dei gruppi o degli artisti grazie ai quali sono nati i The D? ''Innanzitutto Beatles e Rolling Stones. E non chiedeteci da che parte stiamo, sarebbe come chiedere ad un bambino se vuole più bene a mamma o a papà. Altre band che hanno avuto un impatto forte sulla nostra crescita sono gli Arctic Monkeys, the Fratellis, Franz Ferdinand, Oasis, Kasabian, Libertines e, volendo uscire dalla Gran Bretagna, gli Strokes, the Killers, gli Interpol. Ma anche band molto lontane dal nostro sound come i Led Zeppelin, gli Who, i Pixies, i Sonics, i Queens of the Stone Age, i Guns n’Roses. Insomma, siamo in quattro, e ognuno di noi vi terrebbe almeno 24 ore a parlare delle proprie influenze musicali e dei propri gusti. God Save the Queen!''. La scelta dell’inglese è dovuta all’adorazione per quel tipo di suono o c’è una motivazione “ideologica”? ''Più che ideologica, la scelta è stata stilistica, miravamo ad un sound abbastanza distante canoni della tipica band indipendente italiana, di conseguenza la scelta della lingua è stata naturale. Giuseppe, poi, afferma di non saper cantare in italiano. Abbiamo semplicemente fatto due più due''. Quali sono i temi salienti delle vostre canzoni? ''Bella domanda. Ogni nostro brano è narrativa, racconto, esperienza. Nessun brano è nato per necessità, tutto nasce per desiderio. Ogni brano può essere ricondotto a momenti di vita, adeguatamente romanzati e “universalizzati”. Un momento per tutti i momenti. Lunga vita alla narrativa, non è detto che un racconto non possa parlare di sentimenti universali. C’è l’amore, c’è l’odio, le delusioni, le disillusioni, le prospettive, i desideri, i sogni più reconditi''. Da Great Britain all’Italia: vi riconoscete nel panorama rock indipendente italiano o vi considerate altra cosa? ''Il panorama indipendente italiano è florido, molto florido, e chi dice il contrario è perché non ha il polso della situazione. La stessa Avellino, che può apparire come una realtà infinitamente piccola, riesce a tirare fuori ottimi prodotti che potrebbero conquistare tranquillamente sbocchi sul mercato europeo. Chiunque viva il momento attuale del nostro Paese, per forza di cose, sarà accomunato da determinati sentimenti e intenti. Ci saranno sicuramente mille modi diversi di comunicare, ma crediamo che, in ogni caso, il rock indipendente italiano abbia un forte filo conduttore comune''. Torniamo alla produzione di USM, avvenuta con una sorta di “azionariato popolare” via MusicRaiser. Pensate che il crowdfunding sia inflazionato o è ancora uno strumento utile per chi opera in regime indipendente? ''A noi è stato molto utile. La nostra esperienza ci ha mostrato che non è affatto inflazionato, anzi la nostra impressione è che sia sottovalutato e spesso frainteso. Non possiamo nascondere che non è stato semplice dare una risposta a tutti quelli che ci hanno chiesto il perché di questa scelta. L’impressione è che si sia ancora molto legati al concetto di “acquisto” e di “merce”. Non è stato semplice spiegare che non si stava chiedendo di “comprare” un disco ma di realizzarlo insieme. Alla fine questa idea è passata e, fortunatamente, abbiamo ricevuto una risposta al di fuori delle nostre aspettative''. Dall’Italia all’Irpinia: alcuni di voi hanno avuto un’esperienza interessante nel collettivo Mic.Rec., che a suo modo rappresentò un modo di fare e gestire musica nuovo nell’ambiente locale e regionale. Com’è il polso della situazione musicale irpina? ''La condivisione della musica, ad ogni livello, è cambiata tanto. Sono cambiati tanto i canali di diffusione ed i metodi. Oggi come oggi appare obsoleto immaginare un fenomeno musicale “regionalizzato”. La musica viaggia più velocemente di qualsiasi altra forma d’arte ormai. Dopo aver ascoltato un nostro brano tratto da ''Alf'', trasmesso da una radio di Los Angeles, possiamo dire che ormai sia difficile confinare geograficamente un progetto musicale. Avellino è viva e vegeta, e sfidiamo chiunque a dire il contrario. Certo, non ci saranno tantissimi club in cui ascoltare musica live, ma ogni anno fioriscono nuovi progetti e vengono fuori nuovi dischi. Basti pensare ad i nostri amici Red Shelter, Gli Umani, the Exploders Duo. Gente che sa cosa fare con un palco e con un pubblico''. Il 12 dicembre salirete sul palco del Black House Blues per presentare il disco: che differenze ci sono tra i The D in studio e dal vivo? ''Le differenze sono tante. In primis il numero dei componenti. In studio siamo stati in 4, dal vivo ci sono loro. Il pubblico, il nostro pubblico, la curva D, i cori, i coriandoli, il pogo, il sudore, la tachicardia, le sbavature, le urla, il rock & roll. L’approccio è diverso. In studio devi dare tutto te stesso per ottenere un prodotto che enfatizzi al meglio la tua identità di band, il tuo suono, le tue idee. Dal vivo c’è il faccia a faccia, ci si guarda, ci si sorride, si suda insieme e ci si diverte. In studio si pomicia con educazione, dal vivo si fa l’amore...''.