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06/07/2025
06/07/2025 PIETRUCCIO MONTALBETTI
''Avevo dubbi sul fatto che Battisti potesse affermarsi. Ma non mi importava: eravamo amici, e bastava così''
Un racconto autobiografico che riporta alla luce gli esordi, l’amicizia profonda con Lucio Battisti e l’epopea dei Dik Dik: la storia di una generazione, scritta da chi l’ha vissuta. Cosa succede quando a scrivere è chi ha vissuto in prima persona l’inizio di un’epoca? Succede che il racconto si fa vivido, personale, nostalgico e appassionato. È quello che accade in "Storia di due amici e dei Dik Dik", il nuovo libro di Pietruccio Montalbetti edito da Minerva (con una prefazione di Marco Buticchi), che è al tempo stesso un’autobiografia, un omaggio all’amico Lucio Battisti, e un percorso musicale e umano attraverso i decenni più travolgenti della musica italiana.
Con uno stile diretto e sincero, Pietruccio – fondatore e storico chitarrista dei Dik Dik – rievoca il tempo delle radio pirata, delle prime chitarre sognate e sudate, delle notti passate a provare nelle sale parrocchiali e dei lunghi viaggi in Cinquecento, con strumenti caricati fino al soffitto, pur di suonare in qualche balera di provincia.
Ma soprattutto, racconta Lucio. Non il mito, non il personaggio riservato che poi tutti avrebbero conosciuto, ma “l’uomo”, l’amico. “Quando sento la parola ‘amicizia’, mi viene in mente solo un nome: Lucio”, scrive l’autore. L’incontro con Battisti, avvenuto quasi per caso in uno studio di registrazione, dà il via a un rapporto profondo e duraturo, fatto di stima reciproca e condivisione. Un rapporto che precede la fama, e che proprio per questo è autentico, schietto, commovente.
Cosa ricorda del primo momento in cui ha sentito che la musica sarebbe stata il suo destino? ''Il mio destino è cambiato quando mi sono ritrovato con i Dik Dik al primo posto in classifica con ''Sognando la California''.
Quando ha capito che Lucio Battisti non era solo un talento, ma un amico per la vita? ''Già agli inizi, e anche dopo molto tempo, nutrivo dei dubbi sul fatto che Lucio potesse davvero affermarsi. Ma tutto questo non mi importava: eravamo amici, e per me bastava così''.
Come è cambiato lo spirito dei Dik Dik dal primo provino all’ultimo concerto? ''Lo spirito mio e dei Dik Dik è sempre stato lo stesso: niente esaltazioni, niente arie, neanche quando il successo ci ha travolti...''.
Quando ha sentito l’urgenza di scrivere ''Storia di due amici e dei Dik Dik''? ''L’ho sentita quando ho capito che in troppi si prendevano il merito di aver scoperto Lucio Battisti. E mentivano, solo per mettersi in mostra''.
Ha viaggiato in luoghi lontani e spesso estremi: che cosa cercava? ''I miei viaggi in solitaria sono stati fondamentali per conoscere il mondo non turistico e, soprattutto, per capire meglio me stesso. E ci sono riuscito''.
Le canzoni dei Dik Dik sembrano piccole storie: come le costruivate? ''Le canzoni le ho sempre scelte io. Lucio diceva: “Se piacciono a noi, devono piacere a tutti.” Aveva un buon fiuto''.
Che città era la Milano in cui sono nati i Dik Dik? ''C’era una Milano più umana, allora. Io sono nato in via Stendhal, proprio dove la città finiva e iniziava la campagna. I miei compagni di giochi erano Cochi Ponzoni, Lallo, Moni Ovadia e Ricky Gianco: eravamo una banda di ragazzi curiosi, pieni di sogni e risate''.
Dietro ogni canzone c’è una persona: chi c’era dietro “Io mi fermo qui”? ''Fu una mia intuizione improvvisa: appena ascoltai ''Io mi fermo qui'', corsi dalla Ricordi a chiedere di poterla portare a Sanremo''.
Il libro sembra scritto non solo per sé, ma per un’intera generazione. Era questo l’intento? ''Sì, questo libro deve essere un prezioso documento della nostra generazione per quelle future, non solo per i Dik Dik, ma soprattutto per Lucio Battisti, che il New York Times ha celebrato come il Bob Dylan italiano, e che Ennio Morricone ha riconosciuto come il più grande musicista italiano contemporaneo. Un’eredità di musica e emozioni che merita di essere ricordata''.