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01/06/2017   MARIANO SISTO
  Quattro chiacchiere con lo sceneggiatore del documentario ''NaWave''

Abbiamo incontrato Mariano Sisto, sceneggiatore di ''NaWave'', documentario sulla scena indipendente a Napoli (tra i protagonisti ci sono i Foja, Tommaso Primo, Giovanni Block, Sabba e gli Incensurabili, Fede’n’Marlen, PeppOh e molti altri).

Mariano, come vi è saltato in mente di realizzare un documentario sulla musica a Napoli oggi? ''Credo che l’esigenza di raccontare sia un bisogno fortemente soggettivo. ''Na Wave'' è un racconto, e come ogni narrazione nasce dalla voglia di esprimersi, di voler dire. Ho sempre accarezzato l’idea di realizzare un documentario musicale, ed oggi non saprei dire com’è che una sera ho espresso quell’idea ad alta voce, insieme a Giuseppe Pettinati (altro autore del documentario, ndr). La città, come palcoscenico imparziale, non ne sentiva forse un bisogno oggettivo; la narrazione può essere talvolta un atto di egoismo. Ci scagiona probabilmente solo l’aver raccontato la realtà giusta nel momento più maturo''.

Quali sono attualmente secondo te i punti di forza, e dunque quelli di debolezza, della scena napoletana? '' Un punto di forza è già probabilmente l’essere una realtà indipendente, il che vuol dire sfuggire alle basse dinamiche dell’industria più grande. A nessun cantautore, per intenderci, è stato ancora chiesto di cantare un determinato testo su una determinata base per aggredire quella precisa fetta di mercato. Ci si esprime per la voglia di farlo, e questo è ossigeno per lo stato di salute. Vero è, d’altra parte, che quel che vige nei grande sistemi si riproduce per certi versi, in scala, anche nei piccoli. Ma complessivamente, non al punto da deformare una scena musicale. Se devo pensare a una debolezza, direi il dialetto. Non in quanto limite in sé, ma in quanto idea di limite che ne hanno i singoli artisti: c’è chi in forza del dialetto prova a sconfinare oltre-regione, e chi invece per lo stesso motivo si rintana nella sua nicchia''.

La realizzazione di un audiovisivo è sempre un’esperienza professionale ed umana arricchente. Che emozioni e suggestioni avete tratto a livello personale e professionale da questa produzione? ''Ricordo nei primi tempi di aver ammirato la macchina “produzione” come si ammira imbambolati un meccanismo complesso e mosso, sembra, da una volontà invisibile. Mi ha sempre piacevolmente colpito vedere come, quando mi chiamavano per cominciare l’intervista, il viavai della squadra avesse prodotto intorno all’artista un’impalcatura ogni volta in perfetto equilibrio, in un’aria di sospensione e di silenzio''.

Come hai organizzato la scrittura e dunque preparato le domande da porre agli artisti? ''Quasi mai ho cercato di imbastire un’intervista canonica fatta di domande e risposte. Più spesso ho provato ad alimentare una conversazione. Buona parte degli artisti ha già sostenuto numerose interviste, e tutto quel che gli si poteva chiedere è stato già chiesto. Questa è stata forse l’opportunità che mi ha permesso di fare un passo indietro insieme agli intervistati e provare a considerare il tutto dall’alto, complessivamente. Ho offerto spunti, più che chiedere, ed ho cavalcato l’onda dell’interesse delle singole sensibilità. Per proiettare il cono di luce sul singolo, bisogna lasciare sé stessi al buio''.

Quali sono i canali attraverso i quali vi aspettate di raggiungere il pubblico? Che ruolo avrà internet ed il web nella promozione del vostro lavoro? ''Domanda curiosa, mi è capitato spesso di farla io stesso agli artisti. Il documentario strizza l’occhio allo stesso pubblico che affolla l’onda dell’interesse per l’underground; per forza di cose, quindi, potremmo dividere lo stesso terreno degli artisti perché il messaggio arrivi a chi abbia interesse nel recepirlo. Parliamo di internet, chiaramente. Ma questa è una possibilità che, nella scala delle priorità, non occupa le prime e più prossime posizioni. Prima sonderemo tutt’altri circuiti: dalla produzione cinematografica in senso stretto, alle emittenti tv. Internet potrebbe essere la chiusura del cerchio di un boomerang che torna da dove è partito''.

Il team che ha prodotto ''NaWave'' è stato assemblato in occasione della realizzazione del documentario o ha altre attività di produzione che dobbiamo aspettarci per il futuro? ''Ci siamo assemblati in funzione del documentario. Macinando ore di girato abbiamo smussato gli angoli per far sì che ognuno ritagliasse i confini degli spazi necessari al buono svolgimento del proprio lavoro. E, come dicevo poco fa, la macchina ha girato alla perfezione, non senza le naturali difficoltà. A cosa abbiamo dato vita di preciso lo scopriremo solo quando il documentario vedrà la luce e capiremo, così, quali acque sono state smosse. Per ora non abbiamo nulla in cantiere per il futuro. Ma, come si dice: cavallo vincente non si cambia''.

Un saluto per i nostri lettori ed appassionati di musica e cinema. ''Senza un pubblico che dia credito a un palcoscenico musicale e alle narrazioni che gli girano intorno non ci sarebbe né musica, né possibilità di raccontarla. Il vostro interesse muove più di quanto non sembri. Ci si becca spalla spalla ad un concerto, o ad una proiezione, si spera!''.