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19/09/2019   FOLWARK
  ''Per noi l'improvvisazione è qualcosa a metà fra un esorcismo e una pratica meditativa...''

Il 20 settembre 2019 è il giorno di ''VIMĀNA'', nuovo album dei Folwark prodotto dalla Seahorserecordings di Paolo Messere e curato da Claudio Adamo (mixaggio e mastering). I Folwark (dal polacco, “fattoria”) prendono forma in Umbria nell’autunno del 2014 dal sodalizio tra Francesco Marcolini (chitarra e synth) e Tommaso Faraci (percussioni e theremin) tra i quali si sviluppa una ricerca musicale intensa ed irrequieta da cui emerge un sound concentrato ed essenziale, impetuoso e introspettivo. ''Vimana'' si presenta come un album interamente strumentale, in cui la costante ricerca di nuove sonorità e una forte ispirazione psichedelica hanno spinto la band ad aggiungere nuovi ingranaggi al meccanismo del loro sound, come sintetizzatori e theremin, con i quali esplorare panorami desertici e vorticosi, viscerali e cosmici, ai quali affiancare distorsioni e raptus di rock pesante. La redazione di Music Map li ha raggiunti per approfondire la genesi del loro progetto.

Benvenuti ragazzi. I brani di ''Vimana'' alternano potenza e linearità negli arrangiamenti, risultando a tratti distorti ma sempre acusticamente godibili grazie al giusto amalgama strumentale. Verrebbe da dire che, per un concept musicale come il vostro, “due” sia davvero il numero perfetto. Come è nata e come si alimenta la vostra alchimia? ''Semplicemente suonando, suoniamo insieme da molti anni, anche in precedenti formazioni, e il progetto Folwark è nato e cresciuto nel tempo in modo molto naturale e si fonda principalmente su una bella amicizia e sulla condivisione di numerose esperienze artistiche anche diverse dalla musica. I nostri pezzi nascono da improvvisazioni spontanee che cerchiamo di distillare in modo che mantengano la propria originalità anche sotto forma di brano "finito". Crediamo che la nostra alchimia sia proprio nell'improvvisazione che spesso è qualcosa a metà fra un esorcismo e una pratica meditativa''.

''Vimana'' si presenta come un disco per nulla banale che, fin dalla copertina, invoglia l’ascoltatore a diradare le nebbie per vedere cosa si cela al di sotto. Quali sono gli elementi di novità più importanti dell’album e qual è l’impronta che fin dall’inizio avete deciso di dargli? ''La nebbia crediamo sia una "condizione spirituale" più che un fenomeno atmosferico: in una condizione di limitata visibilità, i sensi si allertano, ci si concentra sul proprio respiro e verso l'interiorità. In qualche modo si "vede" di più. Si accende un fuoco interiore che possa illuminare ciò che ci circonda. I pezzi che compongono il disco sono appunto un viaggio spirituale ed emotivo su questo crinale. L'impronta più importante che abbiamo seguito é proprio la fedeltà a questa condizione performativa, cercando di mantenere sempre la tensione necessaria all'esecuzione e alla scrittura. Il nostro non-obiettivo é fermare degli istanti, le parti di una storia o di un dialogo''.

Gli artwork che accompagnano l’album (dall’estetica decadente e selvaggia) vi immortalano sempre con una piramide a specchio posta ai vostri piedi. C’è un significato particolare dietro questa simbologia? ''È una piramide equilatera, solido che per Platone simboleggia il fuoco e per estensione l'energia pura e indomabile della creazione, distruzione e conoscenza. Vuole essere un'enigma e insieme una metafora, un po' come il cubo blu di David Lynch in ''Mulholland Drive'', è un oggetto in cui la realtà può essere riflessa o contenuta. Il luogo dove è stata scattata la foto invece è una chiesa, ora abbandonata, edificata su una sorgente che pian piano la sta sommergendo. Questa chiesa è stata anche il set per alcune scene di ''Nostalghia'' di Tarkovsky, é un luogo magico dove il tempo si ferma''.

Come suggerisce il vostro nome, il vostro sound ed anche il vostro approccio al pubblico sui social, l’impressione è che siate maggiormente orientati ad una platea “internazionale”. In questo senso ed alla luce del vostro taglio musicale, come giudicate il panorama musicale italiano con il quale vi confrontate, relativamente al vostro genere? ''Premesso che non riusciamo ad identificarci in un unico genere, la situazione attuale in Italia è quasi totalmente rivolta altrove... Ma se non si guarda al panorama mainstream si possono trovare delle realtà interessanti che conservano e rinnovano lo spirito puro e istintivo della musica. Crediamo che in Italia ci siano band e autori meravigliosi ma molto spesso sottovalutati o con poca visibilità, il che li rende ancor di più speciali e di valore. Chiaramente la scena estera é più nutrita e partecipata ma questo non ci fa desiderare meno palchi e/o locali in Italia''.

Quali sono state le maggiori influenze del vostro percorso musicale? Esiste un disco che i Folwark considerano “di riferimento”? ''Di influenze ce ne sono moltissime, ma se dovessimo citare un solo disco di riferimento, dovremmo necessariamente scegliere ''Live at Pompeii'' dei Pink Floyd, 1972. Un'opera totale e senza tempo, praticamente un manifesto artistico imprescindibile. Menzioni d'onore per band come Tool, Melvins, Godmachine, The Mars Volta, Om, Hawkwind, Radar Man from the Moon, Föllakzoid''.

Quest’album, che non delude all’ascolto, potrebbe rappresentare il passepartout di un brillante percorso musicale. Come immaginate il progetto Folwark tra qualche anno? ''Siamo molto entusiasti della riuscita del disco, ma non abbiamo mai interrotto i lavori e continuiamo il nostro percorso proprio per scoprire dove ci porterà. Al momento stiamo lavorando su più fronti, su nuovi pezzi molto atmosferici e umorali, con ritmiche ossessive, tempi molto dilatati e riff introspettivi. Ci sono anche linee di voce nei nuovi pezzi e un utilizzo più ampio dei synth. Stiamo anche lavorarando a due cover a noi molto care. Fra qualche anno è bello immaginarsi ancora in movimento, impegnati nella sperimentazione, in una ricerca sonora ancora nuova e diversa e, perché no, come felici possessori di un furgone per i live''.