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15/10/2024
13/04/2021 FIREGROUND
''Il sogno e la rabbia sono le due facce della stessa medaglia...''
I Fireground nascono nel 2018 da un’idea di Roberto Vagnoni (ex Starviolet) alle chitarre e synth, Enrico Imparato (batteria), Fabrizio Sensini al basso e Marco Franzese alla voce. Dopo una prima demo autoprodotta, la band inizia la lavorazione del primo album sotto la supervisione di Pietro Foresti e Matteo Agosti presso lo studio di Frequenze a Monza. Oggi ci parlano proprio del loro debutto sulla lunga distanza.
Ciao ragazzi. Le vostre origini risalgono intorno alla metà degli anni ’90 con la formazione in trio. Poi cosa è successo? ''Ciao a te, e anzitutto grazie per ospitarci qui! Esatto, io (Roberto), Enrico e Fabrizio abbiamo iniziato a suonare insieme durante l’adolescenza, poi per una serie di motivi personali e professionali ognuno di noi ha preso una direzione diversa e ci siamo un po’ persi di vista, ma mai del tutto, e comunque prevalentemente in senso musicale… L’idea di una reunion, nel 2017, inizialmente non contemplava l’ipotesi di registrare un disco, perché la leva che ci ha spinti a tornare indietro di 20 anni è stata soprattutto la voglia di divertirci di nuovo assieme come ai bei tempi… con l’ingresso di Marco, invece, ci siamo accorti che avevamo la possibilità di portare la nostra musica su di un livello superiore. Aggiungici che eravamo un po’ stufi di suonare le canzoni degli altri… e il resto è storia!''.
Ci sembra che il nome della band omaggi, per certi aspetti, la città natia e la terra dei fuochi dei Campi Flegrei, con un’occhio rivolto anche all’estero, è così? ''Sì, è proprio così… anche se l’associazione con le nostre origini è venuta in un secondo momento, nel senso che abbiamo prima di tutto cercato un nome che potesse suonare bene ed essere d’impatto al tempo stesso. Quando poi ci siamo accorti che in “Fireground” c’è il richiamo alla terra infuocata, e che tutti noi veniamo da una zona vulcanica, a quel punto non c’erano più dubbi: avevamo trovato il nome! Diciamo che è un modo per ribadire chi siamo, pur sentendoci al 100% una band internazionale''.
L’inglese è la logica conseguenza per tentare sconfinamenti Oltralpe. Ma, oltre a questo, è l’idioma che per il genere che fate è, comunque, il più appropriato? Avete mai pensato di sperimentare qualcosa in lingua-madre? ''Guarda, possiamo dirti che nessuno di noi ha mai provato a scrivere in italiano, neanche in passato. Non è nemmeno un discorso di adeguatezza rispetto al tipo di musica che suoniamo: è che per noi è sempre stato naturale scrivere in inglese, come respirare o bere un bicchiere d’acqua. Hai presente la storia del bambino lasciato a crescere nel bosco insieme ai lupi, al punto da imparare a ululare piuttosto che a parlare? Per noi è una cosa simile, nel senso che la nostra cultura musicale è sempre stata anglofona - pur apprezzando molto anche la musica italiana, o meglio certa musica italiana - e quindi, essendoci nutriti di pane e rock americano o britannico, siamo cresciuti con quel tipo di ispirazione sin da ragazzini''.
Aprile sancisce l’uscita del vostro esordio omonimo, anticipato dal singolo “Worm”, dal piglio diretto, fitto e moderno. Che tematiche trattate nel percorso dell’album? ''E’ difficile rispondere a questa domanda, perché mai come in questo caso ti possiamo dire che dentro puoi trovarci quello che meglio credi. Sicuramente da parte nostra il filo conduttore che lega tutti i brani è la ricerca di autenticità, un’urgenza espressiva, la gioia e il piacere di creare musica senza voler lanciare nessun messaggio in particolare. Crediamo che questa immediatezza si percepisca abbastanza bene ascoltando tutte le 9 tracce del disco, specie se lo fai di fila. Secondo noi questo album esprime il bisogno di una connessione autentica con sé stessi e con le proprie radici, in senso fisico e metafisico allo stesso tempo''.
Tra le note stampa noto che dietro le quinte c’è la preziosa produzione di Pietro Foresti. Quali sono stati i correttivi che, principalmente, lui vi ha suggerito per affinare la vostra quadra progettuale? ''Dobbiamo dire che Pietro è stato di grande supporto per noi. Ha un modo di lavorare quasi serafico, ti infonde grande serenità e soprattutto è una persona molto onesta intellettualmente: non ti fa intravedere la luna, non cerca di trasformarti in cosa “dovresti essere” ma al contrario si concentra molto su chi sei e su cosa sei, aiutandoti a tirare fuori il meglio che hai dentro, anche quello che non pensavi di avere. Avevamo molto da affinare, ce ne siamo accorti lavorando con lui anche in fase di strutturazione dei brani… prima di incontrarlo, nelle nostre canzoni avevamo la tendenza a dare troppo risalto ad elementi che magari sono secondari, per non dire inutili, andando a nascondere invece dei possibili punti di forza. Lui ci ha dato la visione giusta per comprendere come si realizza un prodotto che sia anzitutto fruibile e piacevole da ascoltare, oltre che qualitativamente di alto livello. Su questo punto vorremmo citare anche Matteo Agosti, che ci ha aiutato a trovare il sound perfetto per noi valorizzando i brani nel modo migliore possibile''.
Dal vostro sound si deduce l’anelito di spaziare apertamente nell’ampio ventaglio emozionale: un’istintività per non porsi limiti scritturali? ''Esatto, semplificando potremmo dirti che la nostra musica tende a seguire una doppia attitudine, una più eterea e sognante e l’altra più viscerale… entrambe hanno in comune il fatto di ricercare sempre l’espressività e l’emozione, che sono a nostro avviso gli unici due motivi per cui la musica ha ragione di esistere. Non ci interessa veicolare concetti, ci interessa colpire l’anima di chi ci ascolta, risvegliare qualcosa a livello emotivo. Il sogno e la rabbia sono le due facce della stessa medaglia''.
Si nota come le vostre influenze guardino sì alle “vecchie” glorie come Nirvana, Pearl Jam, Smashing Pumpkins, ma anche a quelle post-grunge come Alter Bridge, Creed, Foo Fighters. Da chi avete attinto maggiormente nell’ispirazione? ''E' da premettere che i nostri ascolti, in molti casi, sono diametralmente opposti rispetto alla musica che creiamo. E’ anche vero che nel tempo i gusti tendono a evolversi, per cui oggi possiamo trovare ispirazione in qualcosa che 20 anni fa ci avrebbe lasciati indifferenti. Questo per dirti che tendenzialmente è vero che suoniamo alternative rock, che è un po’ il terreno comune nel quale noi 4 ci incontriamo, ma possiamo dirti anche che nel background musicale di ciascuno di noi c’è tutto e il contrario di tutto, dal pop elettronico al cantautorato, dalla musica ambient all’heavy metal''.
Napoli è simbolo di passione e veracità. Nei pezzi quanto pulsa l’amore ed il senso d’appartenenza per la vostra città? ''Guarda, ci piace pensare che la nostra napoletanità risieda appunto nell’espressività che mettiamo nella musica, che poi è un po’ come quell’autenticità di cui ti parlavamo prima… ora è difficile dire se questa cosa si percepisca o meno, tuttavia l’attitudine alla melodia e alla creazione di un tipo di musica “calda” (che aggettivo terribile, però è per rendere l’idea...) potrebbe essere effettivamente un tratto distintivo per noi e per quello che rappresentiamo''.
Augurando le migliori affermazioni professionali, ci congediamo dai Fireground ringraziandoli per l’intervista concessa. (Max Casali)