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04/05/2021   MARCO SONAGLIA
  ''In quanto bolscevico, io sono quotidianamente un fatto scomodo...''

Marco Sonaglia è un artista di Fabriano. Oltre ad avere una decennale esperienza come insegnante di educazione musicale, è un cantautore con all’attivo due dischi da solista: “Il pittore è l’unico che sceglie i suoi colori” (2012) e “Il vizio di vivere” (2015), più due dischi con il gruppo dei Sambene. Oggi esaminiamo con lui il nuovo album “Ballate dalla grande recessione” che esce per l’etichetta Vrec.

Ciao Marco. Il tuo curriculum elenca dischi con i Sambene, uno di musiche per bambini e tre come solista. Ce ne parli brevemente? ''Inanzitutto grazie per lo spazio dedicato. Il mio esordio discografico risale al 2012 con il disco "Il pittore è l'unico che sceglie i suoi colori", un lavoro di taglio rock, prodotto da Massimo Priviero. Nel 2015 è uscito "Il vizio di vivere" prodotto da Lucia Brandoni per l'Accademia cantautori di Recanati, un disco per due chitarre e un pianoforte, dai forti contenuti letterari. Con Lucia Brandoni abbiamo scritto delle canzoni per bambini per un cd che usciva allegato al libro "I Galleria bulletti", per sensibilizzare i più piccoli al tema del bullismo. Con il gruppo Folk dei Sambene abbiamo fatto due lavori. "Sentieri partigiani, tra Marche e Memoria", un disco pluripremiato con pezzi inediti ispirati a storie della resistenza marchigiana e prodotto da Michele Gazich. Poi il nostro personale omaggio a Faber nel ventennale della sua scomparsa con "I Sambene cantano De Andrè: Di signori distratti, blasfemi e spose bambine" che ha visto tra gli ospiti anche Franco D'Aniello dei Modena City Ramblers. Inoltre ho preso parte ad un disco live dei Gang "Quando gli angeli cantano", dove ho reinterpretato "Paz" dal loro repertorio''.

Il nuovo album “Ballate dalla grande recessione” è sicuramente il più difficile ed impegnativo e, forse, il più vicino alla tua personalità? ''È un album che è stato definito disturbante e, in senso positivo, fastidioso. Io penso che la canzone, chiamiamola “impegnata” (anche se ritengo necessiti assai più impegno il mantenersi nei parametri imposti dalle majors), deve provocare un effetto di disturbo, di straniamento… Lo ha sempre fatto. In quanto bolscevico, poi, io sono quotidianamente un fatto scomodo. Non saprei dire se più di altri, ma indubbiamente è un album che mi somiglia molto, sì. Soprattutto segna un passaggio significativo in direzione di un’idea precisa di produzione discografica, dove è naturale che il prodotto delle collaborazioni consista in un fatto nuovo, più ricco, più articolato e in definitiva più interessante. Penso ai favolosi album firmati Roversi-Dalla, che in una certa misura ci fanno da riferimento. Non è facile, quando si collabora, fare in modo che nessuno metta da parte del suo per favorire l’altrui. Accade di rado, ma quando accade i risultati sono felici e l’attenzione che questo disco sta riscuotendo ne dà prova. Io e Lo Galbo ci siamo conosciuti nel 2019 e ci siamo trovati bene da subito; siamo molto affini, culturalmente, politicamente, insomma umanamente. È così che siamo riusciti a collaborare senza rinunce. E si consideri, per di più, la difficoltà delle comunicazioni a distanza, dal momento che è stato tutto un lavoro svolto in quarantena''.

Nella tracklist si odono temi di Olocausto, abusi, angherie di Potere e altro. Di quali tematiche, tra quelle trattate, avverti maggiormente l’urgenza espressiva? ''Le tematiche più urgenti sono indubbiamente quelle operaie. Perché da comunista penso che è la sconfitta della classe operaia ad aver determinato lo strapotere del capitalismo e dunque tutta la barbarie che ci travolge. La questione di classe è quella alla base. È da lì che poi scaturisce il resto. Si parla di migranti, per esempio. Ma cosa sono i migranti? Uno è migrante durante il tratto della migrazione. Prima di partire e dopo che è arrivato è ancora migrante? No, lì ritorna quello che era. E lo era anche mentre navigava. Cioè un proletario. I ricchi non emigrano sui gommoni, i ricchi viaggiano in aereo. Non vengono confinati a Lesbo, non finiscono fucilati nei campi, non diventano preda famelica come il modello Riace, non sono stati gasati nei forni crematori di Hitler. Tutta la storia, diceva Marx, è storia di lotta di classe. E quando è la classe capitalistica a vincere la lotta, i poveri di tutte le latitudini ne pagano lo scotto. Uno scotto che non ha limiti''.

Il singolo “Primavera a Lesbo” tratta di una vicenda terribile di una bimba arsa viva in un campo profughi. Cosa si potrebbe fare contro l’indifferenza politica, affinchè non si ripetano queste ed altre similari tragedie? ''Non è tanto una questione di indifferenza, ma di deliberata volontà. Da parte delle classi dominanti c’è proprio la volontà di falcidiare una parte enorme di popolazione per far spazio ai profitti. Domandiamoci: se tutta la gente adesso confinata in quelle isole di morte accedesse liberamente ai paesi europei, cosa accadrebbe? Che, appena sbarcati, dovrebbero mangiare, abitare, cercherebbero un lavoro. Ecco, i capitalisti non vogliono darlo, questo lavoro. Perché per il capitalista è redditizio concentrare il massimo del carico di lavoro su sempre meno spalle e licenziare scelleratamente. Il padrone assume un lavoratore, lo sfrutta come tre, e due li licenzia. Lo Stato potrebbe intervenire, tecnicamente, ma lo Stato non è un ente sovrasensibile e a dirigerlo si trova sempre una parte sociale, quella borghese. In secondo luogo, in un’attesa potenzialmente infinita di trovare un lavoro, questi “dannati della terra” dovrebbero percepire un sussidio. E come trova, lo Stato, i fondi per costituire un sussidio nazionale per chi ne ha necessità? Dovrebbe prelevare i soldi là dove sono, e cioè nelle casse dei ricchi, dei capitalisti. Ma si ritorna al punto di partenza: lo Stato è governato dai capitalisti. Quello che si può fare è mirare alla distruzione di questo Stato e di questo sistema sociale ed economico. Questa distruzione può attraversare passaggi transitori e sicuramente quello dei diritti alla vita per i migranti è tra queste''.

Il poeta Salvo Lo Galbo cura la parte testuale dei brani. Come nasce il sodalizio con lui e come riesce a “leggere” e ricreare la tua intenzione ideativa? ''Direi che ci ricreiamo a vicenda. Le canzoni che sono uscite finora, con “Ballate dalla Grande Recessione”, hanno tutte seguito un iter che ha visto prima la realizzazione del testo e poi la partitura melodica. Non va sempre così, in musica, ma in questo particolare caso sì. Con Salvo Lo Galbo ci siamo conosciuti la primavera del 2019, quando era ancora di là da venire la tenebra del covid e si prendevano treni senza problemi. Da Torino è venuto a Recanati, abbiamo passato tre giorni memorabili di divertimento, di confronto politico e culturale e abbiamo instaurato una fraterna amicizia. Lo Galbo è un “maudit bolscevico” e un archivio fumante di progetti. Il problema, ma per me il bello, è che si tratta di progetti talmente sperimentali, arditi sia nelle forme sia nei temi che difficilmente trovano sbocchi. Basti citare che le otto ballate dell’album sono estrapolate da un progetto comprendente una raccolta di ben cinquanta ballate villoniane a tema sociale e politico. L’idea originaria era la pubblicazione di un libro, dal titolo “Cinquanta ballate”. L’oggetto libro è in crisi, anche più del disco, ancor più in crisi è la poesia e quasi un ufo è ormai la poesia politica. Così, parlandomi delle “educate” porte in faccia da parte di questa e l’altra casa editrice, mi passò una ventina di queste poesie. Le lessi con stupore, le rilessi con attenzione e poi, durante il primo lockdown, nel marzo del 2020, ho preso la chitarra e ho provato qualche giro su quegli anomali endecasillabi. Ricordo di avergli inviato una sequela di bozze audio. Gli piacquero subito e così è andata. Io ho selezionato quelle che sentivo più nella mia vena e con l’aiuto di Paolo Bragaglia, il mio amico e fonico, abbiamo dato alla luce “Ballate dalla Grande Recessione”. Un ringraziamento per il coraggio non può non andare anche all’etichetta, la Vrec Music Label, che si è dimostrata (e assicuro che non è scontato nell’ambiente discografico) coraggiosa a promuovere un lavoro tanto controcorrente''.

Per quanto ascoltato, ci sembra che non contempli il solo atto musicale in sé, ma aneli a riportare in auge l’antico legame tra riflessione e poesia: è cosi? ''Assolutamente sì. Il testo di una canzone è sempre, tecnicamente, una poesia. Bisogna solo capire se è una bella o una brutta poesia. Io sono felice che questo disco torni a far pensare alla canzone come poesia. Ma allo stesso tempo, non è nemmeno un effetto cercato. La mia formazione musicale deve moltissimo a cantautori come Massimo Bubola, Francesco Guccini e Claudio Lolli, poeti a tutti gli effetti. Lo Galbo si è formato su Villon e Gozzano, traduce cantautori come l’immenso Georges Brassens e scrive a quattro mani con Fausto Amodei. Intendo dire che se questo è un album che rimarca un legame tra la canzone e la poesia è non solo perché esiste un legame storico tra le due cose, ma anche perché è su quel legame che si è formata la mia passione per la canzone, la bella canzone, la canzone d’autore così detta, che (certo assai più ieri di oggi) è stata stupenda poesia musicata. Non voglio poi fare ragionamenti semplicistici; esiste una poesia esclusivamente letteraria, cioè una poesia che può solo esser letta, non declamata. Talune poesie richiedono di muoversi sulle onde del pensiero, di essere accompagnate unicamente da una cetra interiore, dalla voce del silenzio, non delle ugole. Quella poesia non è oralizzabile e, declamandola o musicandola, si potrebbe anche ucciderla. Ma per le poesie che si prestano alla declamazione, che sono state composte per un uso orale, come le ballate di denuncia di questo album, la musica le potenzia addirittura''.

Quanto arricchisce, in termini artistici, l’attività di educatore musicale che svolgi a Recanati? ''Mi permette di avere un occhio sempre rivolto alla realtà, alle scelte e ai gusti dei ragazzi. Mi consente un confronto sempre vivo e ben centrato sul nostro tempo. In più mi fa esercitare la capacità di esprimermi parlando un po' a tutti, a persone diverse per cultura, età e sensibilità. Un'ottima palestra di comunicazione''.

In era Covid, dove le scelte non sono più propriamente individuali ma condizionate da uno stato emergenziale, come si riesce a tenere alta la volontà ed il “nutrimento” dell’interscambio sociale nel difficile mestiere dell’artista? ''I tempi che viviamo sono particolarmente difficili. L'emergenza covid ha bloccato la musica live e la cultura in generale, cioè quello che è il nostro nutrimento. La formula dello streaming non funziona pienamente, perché manca tantissimo il rapporto con il pubblico, vedere le facce, sentire i commenti, sentire gli applausi. Spero che questa situazione si sblocchi il prima possibile, perché c'è l'assoluto bisogno di tornare a vivere sui palchi, di macinare chilometri, di incontrare gente nuova, di far sentire la propria musica e le proprie idee''.

Augurando ottime prospettive, salutiamo Marco Sonaglia con l’auspicio che il suo album possa stimolare riflessioni ed intenti più profondi e risolutivi. (Max Casali)