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25/05/2021   OCTOPUSS
  ''Dedicarsi con dedizione a perseguire il proprio sogno, ed avere le idee chiare...''

Ciao ragazzi, il 21 maggio uscirà “Miami Airport”, il vostro nuovo singolo. Vi va di raccontarci come è nato? ''Molto spesso i nostri brani nascono jammando e sudando per ore in sala prove, e questo è il modo in cui è nata anche ''Miami Airport''. Ci piaceva a volte, nei momenti di relax, suonare anche a strumenti invertiti, e credo che quel giorno si fosse seduto alla batteria Garrincha: gli feci sentire il riff iniziale del pezzo, che aveva una divertente e particolare scansione ritmica, che giocava con il ripetere il colpo iniziale una volta, poi due, tre e infine quattro volte di fila: ci piacque ed iniziammo a suonarci su. Tornati ognuno al proprio posto, venne fuori una parte di basso che era una bomba, ci misi sopra una linea di chitarra bella funk, e via, si iniziò a girarci sopra per ore… diciamo che al mattino il canovaccio del brano era pronto. Inquadrammo in un paio di sessioni di prova successive il resto della struttura, limando qui e lì gli ingressi di ogni parte e le transizioni, ed infine ci buttammo sopra il testo, che ha una scrittura volutamente semplice e molto “leggera”. Ripensammo all’assurdità di un dialogo, cui avevamo assistito all’ufficio Lost&Found dell’aeroporto di Miami, tra un signore non americano che male parlava l’inglese e una signorina alquanto scortese e sbrigativa che gli faceva il “verso”. Una situazione surreale creatasi tra due persone che stentavano a capirsi ed aiutarsi, che se vista dal di fuori era di una comicità incredibile: la incorporammo in un botta e risposta di due sole frasi ripetute parossisticamente ad oltranza, che amiamo pensare come un minimale ammiccamento al brillante stile non-sense e scanzonato a volte usato da Frank Zappa nelle sue linee più ironiche ed irriverenti, che di sicuro è una delle nostre influenze preferite''.

Sappiamo che avete attraversato la Cina in lungo e in largo coi vostri 10 tour e siete ormai delle star nel paese del Dragone. Ci sono state delle difficoltà a farsi conoscere in questo paese? Se sì, quali? ''Le barriere culturali e linguistiche, soprattutto all’inizio, sembravano essere insormontabili: eravamo ormai ferrati su cultura e modus operandi degli addetti ai lavori e dei fan europei e statunitensi, ma, senza che nessuno di noi tre parlasse una parola di cinese, abbiamo dovuto preparare con dedizione doppia i primi tour in Cina, accettando di buon grado la nuova e difficile sfida in Oriente ma senza sapere davvero cosa aspettarci. Sin dal primo tour abbiamo trovato uno scenario sbalorditivo: la Cina innanzitutto è… grande! Molto grande, e al suo interno molto variegata. Impossibile comparare le vastissime e popolose megalopoli come le famigerate Pechino, Shanghai, Shenzhen e Chongqing, con alcune cittadine delle zone più rurali, così come variegati sono anche gli aspetti culturali. Dal confine posto a Nord con la Mongolia a quello meridionale ci sono migliaia di chilometri, e ancor più dall’estremo est fino alle zone più occidentali di religione islamica: impossibile anche solo immaginare che culture e consuetudini rimangano inalterate. Quindi ciò che avevamo imparato e iniziavamo a fare filar liscio in una determinata regione o provincia, non poteva essere applicato ad una diversa zona: si imparava cosa poter chiedere ed ottenere a livello tecnico, e il giorno dopo si ripartiva totalmente da zero in un’altra regione e i tour procedevano con una sensazione di novità continua. In più continuare a tenere un tabella di viaggio serrata per 30 e a volte 40 giorni di fila per coprire distanze spesso vastissime, era sicuramente molto stancante (ma ovviamente ricco di soddisfazioni ed incontri incredibili). Abbiamo dovuto lottare con jet-lag, malesseri fisici talvolta dovuti al cibo locale, con il gelo dei mesi invernali delle regioni più a nord e il caldo torrido di quelle a sud, con malfunzionamenti degli strumenti danneggiatesi in viaggio, con una serie di discomfort incredibili dovuti ai viaggi e agli alloggi, che, soprattutto nei primi tour, si avvicendavano tra improbabili spostamenti in treni e bus di terza classe stracarichi di persone a tratte in aereo o sui famosi e futuristici treni ad alta velocità cinesi, hotel di quart'ordine si alternavano a residenze superluxury: il tutto in un modo ancora una volta assolutamente impossibile da prevedere. Pensavamo invece, prima di partire, che avremmo avuto le difficoltà più grosse con l’audience locale: “Come riusciremo a coinvolgere e farci capire dal pubblico?”. Ci chiedevamo: “Ci apprezzeranno?”. Ma proprio il pubblico ci riservò da subito una grande sorpresa! Sulla carta era descritto erroneamente come “chiuso”, molto poco anglofono, sicuramente digiuno di lingua italiana, più avvezzo alla musica tradizionale cinese che al rock - e meno che meno al funk – tendenzialmente poco empatico e poco danzereccio. Ci era comunque giunta voce da persone in loco che invece la “scena rock cinese” fosse molto florida e attiva. Iniziammo così a documentarci, scoprendo una miriade di cose nuove e artisti a noi ancora sconosciuti, e decidemmo di inserire in scaletta una nostra versione di due popolari canzoni rock cinesi, “Hai Kuo Tian Kong” della band cantonese Beyond, e “Ashima” di Xie Tianxiao, per proporle dal vivo sin dai primi concerti, come omaggio al rock cinese, in modo tale che la cosa potesse essere anche apprezzata dal pubblico e potesse servire “da ponte” tra la nostra musica e quella più amata dall’audience locale. La cosa, unita all’enfasi delle nostre performance fisiche e “muscolari”, piacque assai al pubblico, che contro ogni pronostico era invece fornito di una buona cultura musicale e più disposto del previsto a “perdere la testa” e lasciarsi trasportare dalla nostra musica: così cominciò a girare la voce di questa “band italiana venuta in Cina per spaccare”, la voce arrivò anche ai media locali, e da lì anche alle star locali, e piano piano fino agli organizzatori degli eventi più grossi. Diciamo quindi che le difficoltà più grosse non hanno riguardato la comunicazione con il pubblico, o come riuscire a farci conoscere. La preparazione e l’organizzazione logistica dei tour, così come le comunicazioni con gli addetti ai lavori locali, hanno invece richiesto molto lavoro e dedizione: una volta imbracciati gli strumenti la strada era in discesa, iniziava il divertimento ed il coinvolgimento del pubblico, e così il “buzzing” intorno alla band si è davvero allargato a macchia d’olio in poco tempo''.

Oltre alla Cina avete calcato palchi in diverse parti del mondo: dagli Stati Uniti all’Europa. Avete dei consigli per le giovani band italiane che vogliono fare una carriera internazionale? ''Il consiglio principale che possiamo dare è dedicarsi con dedizione a perseguire il proprio sogno, ed avere le idee chiare. Già dalle stesure delle prime canzoni il nostro sogno era quello di proporci in concerto anche oltreoceano: volevamo vedere i luoghi e suonare sui palchi dove il rock è nato e viene respirato ogni giorno, volevamo “misurarci” con le band locali in America ed in Inghilterra, e stare dove stanno i top players! Per portare la nostra visione musicale anche fuori dai confini italiani, ovunque fosse possibile, fino anche in capo al mondo, era necessario innanzitutto essere capiti “internazionalmente”: da qui la scelta sin dal primo momento di scrivere i testi in lingua inglese. Così, dopo esserci fatti le ossa con una lunga serie di concerti in tutta Italia, abbiamo deciso di partire per un primo tour negli States, interamente organizzato con le nostre forze; appena tornati dagli U.S.A., i rumors sulla band hanno raggiunto anche Londra, e siamo stati invitati a suonare in alcuni club della storica città inglese. La soddisfazione per il lavoro svolto cresceva, e maturava la confidenza nei nostri mezzi: sentirsi in giro per il mondo a condividere spesso il palco con band americane e inglesi ci faceva “crescere” esponenzialmente sotto tutti i punti di vista. E così non ci siamo più fermati, viaggio dopo viaggio, tour dopo tour, siamo diventati una delle poche realtà indipendenti italiane a poter contare quasi un migliaio di concerti tenuti in tre continenti: Europa, Nord America e recentemente ben dieci tour andati molto bene in Asia. Il secondo consiglio è quindi, se davvero si vuole suonare all’estero, di fare quanta più esperienza possibile sui palchi esteri''.

Vi hanno definito gli “Italian Chili Peppers”: perché? Vi sentite rappresentati da questo soprannome? ''La cosa è nata quando eravamo in tour in California. La notizia che era giunta a Los Angeles una band italiana davvero scatenata aveva cominciato a circolare, forse perché tenevamo praticamente un concerto al giorno, ed eravamo sempre in giro senza fermarci mai, con l’intenzione fare parlare di noi il più possibile. Così a nostra insaputa c’era chi aveva cominciato a chiamarci “The Italian Chili Peppers”, probabilmente per via del nostro genere rock funk d’impatto, e della voglia di fare live bollenti e al limite della sfrontatezza, con performance molto “muscolari” e fisiche. Qualcuno ci chiamava così nei club, qualcuno negli studi di registrazione. Un giorno eravamo ospiti di Kathleen Wirt, moglie di Jim Wirt (famoso produttore del disco ''S.C.I.E.N.C.E'' degli Incubus), nel suo bello studio di registrazione in Santa Monica, e rimanemmo stupiti nell’apprendere che anche lei ci chiamava in quel modo; e ancora più increduli quando successivamente, durante le nostre registrazioni agli Shangri-La Studios di Malibu, il sound engineer Eric Lynn ci ha detto che era stato al telefono con Matt Sorum (batterista dei Guns ‘n Roses n.d.r.) e dicendogli che era in studio a registrare una band italiana chiamata Octopuss si era sentito rispondere “Ah, yes, “The Italian Chili Peppers!”. A noi per la verità non interessa troppo questo soprannome, anche se devo ammettere che amiamo molto i primi dischi dei RHCP… diciamo fino al disco “One Hot Minute” incluso. Hendrix e Beatles, che spesso citiamo come magnificenti autorità, sono invece vette totalmente inavvicinabili, anche come sound: essendo nei nostri ascolti da sempre, hanno influenzato sicuramente anche il nostro modo di suonare e creare musica''.

Per concludere, che rapporto avete con l’Italia? Vi manca quando siete in giro per il mondo? ''Per la verità adoriamo essere in giro per il mondo a portare la nostra musica: ci piace un sacco essere in viaggio per questo motivo, ed accettiamo quindi tutto quello che comporta, nel bene e nel male, a livello di disagi e di necessità di adattamento, che essendo in tour, richiedono tempi molto veloci. Non possiamo però negare che l’Italia ci manchi molto quando siamo lontani, il comfort domestico, le famiglie e gli amici, e le bellezze di cui il nostro Paese è pieno, e, non da ultimo, anche il cibo italiano. Qualche volta, durante gli ultimi tour in Cina, quando sentivamo davvero il bisogno fisiologico di “mangiare all’italiana”, provavamo a convincere chiunque ci passasse a tiro dopo lo show ad ospitarci in casa per vedere di cucinare un piatto di spaghetti: a volte ha anche funzionato! L’Italia è comunque sempre nel nostro cuore quando siamo in giro, e caratterizza in maniera evidente il nostro DNA; qualcuno potrebbe anche dire che suonando tanto all’estero la abbiamo un pò snobbata, ma in realtà in Italia abbiamo suonato innumerevoli show percorrendola in lungo e in largo, ed abbiamo da sempre coniugato le nostre aspirazioni esterofile con un forte senso di appartenenza “italico”, senza mai nascondere o rinnegare le nostre radici – come altri, magari al fine di mimetizzarsi e meglio riuscire nelle dinamiche all’estero - ma al contrario fregiandoci e portando la nostra “italianità” a testa alta in giro per il mondo. Ricordo a tal proposito che in una delle esibizioni più importanti che abbiamo fatto su suolo cinese, in diretta sul canale televisivo CCTV5 per più di 50 milioni di telespettatori nella sola Cina, Nick (il batterista) indossava elegantemente durante la performance una canottiera con i colori della nazionale italiana. Come abbiamo detto, sapevano bene che siamo una band italiana tanto in America, quando venivamo chiamati “The Italian Chili Peppers”, quanto nell’estremo Oriente, dove le origini italiane sono estremamente apprezzate in quanto sinonimo di stile e creatività, e dove forse siamo anche un po' visti come i “discendenti” di Marco Polo (il primo europeo ad interfacciarsi con il mondo cinese fu proprio un Italiano) e dove il nome della band viene molto spesso collegato alla parola “Italy”, persino nei festival e nelle trasmissioni TV, e non di rado coniugato da qualche fan meno avvezzo al lettura dei caratteri occidentali come “Octopuss-Italì”. Questo viaggio continuo ci ha davvero portato sino in capo al mondo, ma con noi abbiamo portato le nostre radici italiane, e il nostro sound nato anch’esso nella sale prova di Milano, in Italia. E’ po’ ridicolo da dire, ma in pratica è come se siamo anche noi esportatori di un prodotto italiano all’estero: noi stessi e la nostra musica''.